domenica 19 aprile 2009

MUNICH (di Steven Spielberg, 2005)

“E’ troppo fazioso”, “No, è politicamente corretto”, “E’ solo un thriller, non analizza in maniera approfondita la questione israelo-palestinese”… I commenti a uscita sala sull’ultimo film di Spielberg si sprecano, segno che l’opera è risultata davvero controversa, scontentando conservatori e progressisti, filo-israeliani come i simpatizzanti della causa palestinese.
Munich parte dall’attentato delle Olimpiadi di Monaco del 1972 compiuto dal commando “Settembre Nero”, che causò la morte di undici atleti israeliani, per raccontare la vendetta di Israele, soffermandosi sui dubbi, le esitazioni, di un manipolo di uomini costretti ad obbedire alla ragion di stato, in una missione che rimetterà in discussione le convinzioni, i rapporti umani, le loro stesse vite. Aldilà delle convinzioni politiche personali, il risultato finale è un film superbo, espressione del miglior cinema popolare americano, capace di stimolare la riflessione nello spettatore attraverso le emozioni che lo investono, grazie al contributo di un ottimo cast di non star, fluidi movimenti di macchina, grande senso drammaturgico e asciuttezza narrativa. L’adesione ad un modello di genere dona all’opera una connotazione universale, liberandola dall’opprimente tema: più che una critica contro Israele (che pure c’è), Spielberg ha realizzato un atto di denuncia contro l’apologia della violenza, contro la vendetta di stato (un velato riferimento a Bush e la guerra in Iraq?), intravedendo solo nella famiglia – onnipresente topos spielberghiano – il luogo dove rifugiarsi e sfuggire all’insensatezza di un odio che ha radici profonde. Un film di pace, in poche parole. In una sequenza il protagonista e un terrorista palestinese si parlano, ignorando l’uno l’identità dell’altro, rivendicando le ragioni della propria lotta, del diritto ad esistere; la sequenza, che sembra smentire quella della radio immediatamente precedente, è di lucido pessimismo (o realismo se preferite), perché ognuno è trincerato dietro le proprie idee, senza possibilità di un compromesso. E’ dunque vero che Spielberg non da soluzioni, ma se in tanti decenni non ci sono riusciti statisti, professionisti della politica o intellettuali, è arduo lasciare questo compito al cinema.
Nell’ultima parte del film il protagonista è vittima della propria paranoia: in una sequenza che cita La Conversazione di Coppola, distrugge la propria abitazione, preda dei propri fantasmi; il limite che separa vittime e carnefici, tra Monaco e la ritorsione successiva, si è assottigliato fino a diventare indistinguibile. E così anche il rifiuto di spezzare il pane nell’ultima scena sottolinea il dissidio tra un popolo funestato da infinite tragedie, e le responsabilità di un governo le cui scelte non sono sempre necessariamente condivisibili.  
di Giulio Ragni, 19 febbraio 2006.

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