sabato 28 febbraio 2009

ANASTASIA (di Anatole Litvak, 1956)

Anatole Litvak diresse Anastasia nel 1956. Protagonista fu Ingrid Bergman ,da molti anni lontana dal grande cinema americano. L’America aveva messo al bando l’attrice svedese da quando iniziò la love story con Rossellini( famosa è la lettere che gli aveva scritto”Vorrei lavorare con lei ,anche se nella sua lingua so dire solo Ti amo”). Sposata con un dentista,Peter Lindstrom,con una figlia Pia(acronimo di Peter Ingrid Always -Peter Ingrid per sempre-),era diventata la star numero uno con film come ad es. Per chi suona la campana,girato con Gary Cooper,ma fuggì da Hollywood per amore. Da Rossellini ebbe altri 3 figli,Robertino e le gemelle Isotta e Isabella,ma l’America puritana condannò l’attrice. Ma verso la metà degli anni 50 l’idillio finì. In Francia interpretò al fianco di Jean Marais diretta da Jean Renoir Eliana e gli uomini e il film ebbe successo. Da tempo era in progetto un kolossal su Anastasia, la presunta figlia dello zar Nicola,miracolosamente sopravvissuta al massacro da parte dei rivoluzionari rossi nei riguardi della sua famiglia. All’epoca una donna smemorata e vagabonda,miracolosamente salvata dopo un tentativo di suicidio (un tuffo nella Senna) affermava di essere Anastasia. Alcuni esuli russi residenti nella capitale francese la presero sotto la loro protezione,facendo di tutto per farla riconoscere come la vera principessa, anche se spinti da motivi poco nobili,ovvero,se fossero state provate l’origini della donna e la sua sopravvivenza alla strage,sarebbe entrata in possesso di un’ingente eredità,concedendo a loro una grossa parte. La Bergman si rivelò perfetta per la parte con la sua bellezza,il suo fascino e il suo portamento. Ma alla fine la presunta principessa e l’avventuriero portato sullo schermo da Yul Brynner si innamorano e se vanno per sempre,rinunciando a ogni rivendicazione. Nonostante l’happy end zuccheroso e hollywoodiano,il film fu un successo,grazie all’interpretazione della Bergman,premiata con l’Oscar. L’America aveva perdonato la diva.
Giudizio (legenda).
di Sara Memmi.  4 dicembre 2007.

IL LADRO (di Alfred Hitchcock, 1956)

Il ladro è un film giallo ricco di pagine drammatiche con aspetti narrativi a volte un po’ sperimentali ma ben riusciti. Si svolge su uno sfondo a forti tinte moralistiche di chiara matrice cristiana: un’atmosfera che irrigidisce un po’ i profili dei personaggi nel mentre esalta la loro moralità. 
La pellicola è uscita nelle sale nel 1956 e nel complesso è una degna prosecuzione delle precedenti opere di Hitchcock, in particolare di quelle che erano già oggetto di buone considerazioni critiche tra le quali: Io confesso (1953), Il delitto perfetto (1954), La finestra sul cortile (1954), Caccia al ladro (1955), La congiura degli innocenti (1956), L’uomo che sapeva troppo (1956). La sceneggiatura de Il ladro prende forma e corpo dalla riscrittura figurativa di un famoso errore giudiziario realmente accaduto a New York ai danni di un musicista di nome Balestrero: sposato e con due figli. L’eco mediatico dell’episodio ha favorito questa scelta di investimento cinematografico.
Per una denuncia alla polizia da parte di tre testimone oculari, impiegate in una succursale di assicurazioni vita, che scambiano il musicista per un rapinatore, una semplice e serena famiglia cattolica è improvvisamente trascinata nella disperazione. Le tre donne responsabili della falsa identificazione risulteranno in seguito affette da lievi disturbi isterici e da alcuni problemi alla vista.
Hitchcock all’inizio del film dichiara di aver voluto con Il ladro fare qualcosa di diverso rispetto ai suoi precedenti gialli. Il regista considera le sue ultime opere misteriosamente carenti, in un certo senso “sbagliate”. Con questo film, basato su una storia vera, Hitchcock vuol provare a colmare ciò che manca ai suoi film. Proseguendo nella presentazione del film egli aggiunge compiaciuto come Il ladro, a differenza dei film precedenti, sia ben fornito di situazioni “strane”: assolutamente non costruite. Esse, sottolinea il regista, sono frutto di una precisa trasposizione sullo schermo degli avvenimenti così come sono avvenuti. Tutto è vero nel film: “parola per parola”. 
Si è discusso molto sul termine “strano” che il regista inglese introduce nel suo monologo al film. Probabilmente in questo caso la parola è da intendere in una accezione positiva, nel senso che designa un ingrediente filmico appetitoso, ricavato dalla cronaca, indispensabile alla riuscita dello spettacolo cinematografico nel genere: giallo vero.
Questo film infatti con lo “strano” evento nato da una procedura giudiziaria riesce a tenere ben desta l’attenzione dello spettatore. Hitchcock scriveva i suoi film per tutti, il suo linguaggio perciò era semplice, a volte però poco ricercato, come in questo caso. Questo aspetto metteva un po’ tutti in difficoltà sul vero significato delle parole. La ricerca del giusto senso da dare a certe sue frasi era impegnativa. Occorreva tentare, con le sue parole, una sorta di traduzione del lessico legato al lavoro per lo spettacolo. Qualcosa che cogliesse, rispetto al contesto filmico di riferimento, la giusta equivalenza con il vocabolario più legato alla critica del film. In questo caso “strano” per Hitchcock è equiparabile a “fuori del comune, curioso”, nel senso di scoperta di una idea-situazione idonea per un film: quella indispensabile per la formazione di un buon spettacolo.
In effetti la “stranezza” che il film riporta è ghiotta e ha suscitato un buon coinvolgimento emotivo. Si riferisce come già sopracitato a un gravissimo errore giudiziario, nato all’interno di una procedura investigativa corretta ma caratterizzata da incredibili coincidenze negative che hanno ritardato e minacciato seriamente la scoperta della verità. Un fatto che ha coinvolto proprio l’immagine simbolo più importante dell’America anni ’50: quella della famiglia perbenista, onesta e piccolo borghese. 
Veniamo alla trama. Balestrero è ingiustamente accusato di diverse rapine a mano armata. Aggressioni effettuate ai danni di alcuni negozi della zona in cui risiede e presso la succursale della sua assicurazione vita. In realtà il musicista diventa imputato a causa di una serie sconcertante di eventi sfavorevoli che lo perseguitano come se scaturissero da un misterioso complotto.
Balestrero finisce in galera perché sommerso da numerosi indizi. Questi ultimi, forti della loro coerenza interna, diventano per la giustizia una prova. Da sottolineare che tutto ciò avviene con delle procedure giudiziarie rigorose e rispettose dei diritti dell’indiziato. 
Nel costruire la linea narrativa Hitchcock si avvale prevalentemente della biografia scritta dallo stesso Balestrero, il cui personaggio è interpretato magistralmente sia per verosimiglianza che per empatia filmica da Henry Fonda. Questa pellicola girata in bianco e nero e per due terzi in scenari serali e notturni di grande suggestione neorealista ha avuto un successo di pubblico non proprio di massa, è stato visto per lo più da amanti del genere e da persone legate al mondo della cultura. Per diversi studiosi di cinema Il ladro è un film controverso, insolito in Hitchcock, di difficile scorrimento emotivo. La critica si è subito divisa sul suo reale valore formulando giudizi da ottiche molto distanti tra loro: tutte però in un certo senso comprensibili perché gli approcci venivano da logiche analitiche e metodologiche diverse accomunate da un certo senso della profondità interpretativa. 
Il ladro sembrerebbe, a una prima considerazione, un’opera di difficile valutazione, un film che dal punto di vista critico lascia spazio ad eccessive ed ampie interpretazioni soggettive, se non fosse che, nonostante la prigionia espressiva che un fatto vero impone nella sceneggiatura, Hitchcock sia riuscito lo stesso a destare un forte interesse, ricco di emozioni sapientemente caricate che si dispongono psichicamente in una forma di “attesa”, pronte a scaricarsi al momento favorevole quando lo “straordinario” e lo “strano” scompaiono lasciando il posto ad una sospirata normalità. E questo è indubbiamente un punto di merito chiaro e indiscutibile per il film di Hitchcock. Il regista inoltre vince tutte quelle difficoltà che la sperimentazione insita da sempre nel giallo vero comporta. Questa vittoria è un aspetto chiaro del film che mette a tacere quei commenti rivolti alla pellicola, soprattutto italiani, in verità un po’ superficiali: tutti tesi a dimostrare, prendendo a modello questa opera, l’appiattimento espressivo che un fatto vero comporta nella realizzazione di un film giallo. Il giudizio è errato perché quei commenti hanno trascurato l’immane lavoro compensativo di Hitchcock svolto in questa pellicola per creare la giusta e funzionale delineazione psicologica dei personaggi, qualcosa che equilibrasse la caduta emotiva dovuta a una storia risaputa.
La pellicola è arricchita anche da numerose inquadrature fortemente simboliche che ricorrono nei punti più tesi del film contribuendo a dare spessore allo scenario significante avvalendosi di sintesi figurative straordinarie; queste ultime sono realizzate con molta cura e tocchi inventivi ben congegnati. Per esempio notevole è l’inquadratura con in primo piano il volto di Balestrino seminascosto da un grosso microfono sistemato davanti alla fronte durante la fase della procedura interrogativa conclusiva, avvenuta sopra il palcoscenico fortemente illuminato in una delle sedi della polizia. Lo sguardo di Balestrino con il microfono in primo piano non appare più umano, assume valenze stranianti tipiche di alcuni aspetti dell’Horror.
Inoltre il regista inglese, per destare un maggiore interesse sul film, essendo il finale noto alla maggior parte delle persone, ha dovuto giocare molto sull’emozione-commozione. Ad esempio facendo crescere via via, nello spettatore, l’indignazione per la devastazione psicologica di una famiglia cattolica ritenuta un modello di virtù sociale. Una cosa che il regista fa notoriamente quasi cinicamente soffermandosi molto in questo caso sulle sottili sofferenze della bellissima moglie e le umiliazioni patite da un marito molto orgoglioso. 
Hitchcock ha superato brillantemente lo scoglio del film a contenuti già noti. Anche se in alcune interviste ha dichiarato che nel film qualcosa non andava, proprio per l’aver voluto rimanere fedele ai fatti veri. Nonostante il finale già risaputo il film tiene sulla corda in una modalità di alto crescendo drammatico, avvincendo bene con trovate di notevole portata: sia linguistiche che di effetto transfert. Quest’ultimo è frutto inequivocabile di un grande studio. Hitchcock prepara, magistralmente, allo spettatore la insidiosa trappola del transfert. Dapprima gli fa conoscere bene, attraverso i dialoghi e gli sguardi che parlano da soli in lunghi primi piani, la situazione affettiva della famiglia Balestrero, e a proposito svela sia le difficoltà principali di cui è afflitta che l’atmosfera sentimentale: che è complessa ma prevalentemente gioiosa e fortemente unitaria. E con ciò favorisce un’importante gioco di identificazione e proiezione dello spettatore con i personaggi. Una volta certo, con le sue riprese sceniche a trabocchetto (lo spettatore è in suo potere), di aver suscitato e ben incorporato il transfert dello spettatore verso gli interpreti, il regista inglese fa precipitare gradualmente i protagonisti del racconto nella disperazione più nera curando, sempre con grande attenzione, gli aspetti di sostegno collaterale alle scene, quali: sguardi in primo piano prolungati, gesti familiari, trasposizione nel film di realtà quotidiane legate alle situazioni più comuni (metrò, stazioni, diminuitivi di nomi, traffico stradale, etc.). Ne scaturisce un’atmosfera di significati ad alto contenuto emozionale che trascinano lo spettatore in una sorta di giostra nera.
Hitchcock dà al film l’andamento neorealista che un fatto vero richiede sacrificando però il gioco dell’avvertimento5 perché impossibile da attuare nel genere vero. Quel gioco di grande tensione che scaturisce da una tecnica narrativa denominata suspense, un’alta tensione emotiva che lo ha reso molto famoso. Scene che hanno sempre caratterizzato Hitchcock per la loro costante perfezione stilistica: unica. Sequenze costruite e ideate completamente a tavolino. La carenza di suspense nel film, dovuta principalmente alla fedeltà di Hitchcock a qualcosa che già si conosceva attraverso i giornali dell’epoca, è compensata da una sceneggiatura tutta tesa alla cura maniacale del coinvolgimento dello spettatore sui personaggi; questi ultimi pertanto acquistano via via, e in modo straordinario, profondità e spessore psicologico trascinando lo spettatore nel vortice delle loro inquietudini.
Da sottolineare nel film anche l’apparire marginale della funzione immagine-tempo6, formulata concettualmente ma inconsapevolmente da Balestrino al rientro a casa il giorno dopo il fermo di polizia. Sulla soglia di casa lo sfortunato capofamiglia dice che gli sembrava di aver trascorso nella sede della polizia un tempo lunghissimo, molto più di un giorno come era in realtà avvenuto. Una lunghezza che è vissuta e testimoniata anche dallo spettatore. Questo sta a significare, dal punto di vista del linguaggio cinematografico, come l’immagine non sia solo legata al movimento ma entra anche in un rapporto gerarchico con il tempo a seconda delle situazioni emozionali in gioco, compiendo una vera e propria rivoluzione copernicana, passando cioè da immagine- movimento a immagine -tempo7. Dice Deleuze nella sua rifondazione del cinema a proposito del tempo che si piega nell’immagine: “ vediamo anzitutto il tempo, delle falde di tempo, un’immagine-tempo diretta. Il che non vuol dire che il movimento sia cessato, ma il rapporto tra il movimento e il tempo si è rovesciato. Il tempo non è più il risultato della composizione delle immagini-movimento (montaggio), è viceversa il movimento che consegue al tempo”8.
La moglie di Balestrero finirà, per i dispiaceri vissuti, in un ospedale psichiatrico, afflitta da un senso di colpa delirante; quest’ultimo certamente non è giustificato solo dalla realtà dei fatti accaduti ma si rivelerà di origine storico-inconscia e legato anche a una forma di religiosità di matrice cattolica che ne accentua l’ossessività.
Hitchcock si fa coinvolgere dal cattolicesimo della famiglia Balestrino, forse perché anche per lui la partita sulle verità fondamentali propugnate dalle religioni rimane aperta. Il regista dà senso alle numerose preghiere compiute con il rosario dal capo famiglia. Fa coincidere (notevoli le sovraimpressioni dei due volti affini, da una parte quello dell’innocente e dall’altra quello del vero colpevole) un atto di preghiera di Balestrino con l’andatura nel marciapiede del vero rapinatore prossimo a una nuova rapina. Il malvivente entrerà in un negozio e chiederà armato alla cassiera i soldi della cassa ma commetterà un fatale errore che lo porterà all’arresto. E’ la fine di un incubo, l’arresto del delinquente scagionerà Balestrino.
Il dramma giudiziario si scioglie. Successo della preghiera o casualità? Hitchcock lascia senza risposta questo interrogativo, ma coglie con quella scena di preghiera, che coinciderà con l’arresto del vero colpevole, aspetti inconsci di ciascun spettatore. Forme psichiche legate ad antiche manifestazioni di animismo degli uomini primitivi, brevi abbagli che per un attimo divengono, attivate dal film, suggestioni piacevoli.
Notevoli, per le emozioni espresse, gli incroci di sguardi nel finale, tra il riconosciuto innocente Balestrino e il vero colpevole, nonché con le tre testimone oculari. Fortissimo l’imbarazzo generale nel corridoio della sede di polizia quando tutti i volti, dei responsabili di quanto accaduto, si incrociano con il capo famiglia appena scagionato.
Balestrino sempre neutrale negli sguardi e molto contenuto nelle parole si lascerà in quel momento scappare una battuta severa verso il vero colpevole. Una cosa che farà discutere: “Per colpa tua mia moglie è impazzita”. Il capofamiglia cattolico dà tutta la colpa di quanto accaduto al rapinatore, senza cenni di perdono o analisi di astrazione sociale che giustifichino almeno in parte il colpevole. Sembra quasi che l’ordine morale della cultura cattolica abbia trionfato, il libero arbitrio agito. Il male appare allora come una scelta del delinquente vero e come tale risulta sconfitto…Ma il vero colpevole, poteva essere diverso da quello che i suoi atti criminosi lasciano intendere? Sarebbe riuscito ad entrare in un’orbita di onestà sociale e di sicura sopravvivenza con una semplice scelta del bene? Il film sembra aver fotografato uno spicchio di realtà sociale senza essere del tutto riuscito a staccarlo dalle profonde radici storiche che lo costituiscono.
Giudizio (legenda).
di Biagio Giordano. 7 aprile 2008.

EVA CONTRO EVA (di Joseph Leo Mankiewicz, 1950)

Il film,girato in bianco e nero, è tratto dal romanzo di Mary Orr “The wisdom of Eve”, ed è sceneggiato e diretto dallo statunitense Joseph Mankiewicz. Nel 1950 ottenne un enorme successo al cinema,accumulando 14 candidature agli Oscar e aggiudicandosi 6 statuette. La chiave di questo trionfo è la trama,basata su un dialogo brillante e mai noioso,accompagnata dalla macchina da presa che si sofferma immortalando un cast di attori eccezionali nelle lunghe sequenze a piani medi.
Eva contro Eva”ha inizio con una voce fuori campo che introduce alle fasi finali della vicenda,per poi raccontare,grazie alla tecnica del flashback,come la storia avesse avuto origine. Eva (Anne Baxter), una giovane umile e dimessa,viene notata da Karen (Celeste Holm), moglie di un autore teatrale di successo,poiché tutte le sere assiste allo spettacolo teatrale scritto dal marito in cui recita Margot (Bette Davis),attrice di grande talento al culmine della sua carriera nonostante i suoi 40 anni. Karen decide di presentare Eva alla diva che dice di adorare. La giovane cerca di conquistarsi la fiducia del bel mondo dello spettacolo narrando la triste vicenda del suo passato di povera vedova di guerra. Margot,colpita dal racconto,l’accoglie di buon grado nella sua casa dandole fiducia. 
Le maniere ossequiose,quasi stucchevoli,che Eva riserva alla sua benefattrice,sembrano incantare tutti tranne la caustica infermiera di Margot. Intanto Eva si inserisce nella vita dell’attrice fino a rendersi indispensabile,studiandone ogni minimo movimento. Tuttavia l’essersi intromessa nel rapporto Margot e il suo giovane fidanzato Bill (Gary Merrill), regista di successo,mette all’erta l’attrice,la quale teme che il marito la lasci per una donna più giovane. Improvvisamente la presenza nella sua casa della timida e accorata Eva si trasforma in una minaccia concreta. Per scongiurare il pericolo decide di allontanarla,ma la scaltra giovane abbindola Karen e il produttore da cui è stata mandata,facendosi affidare il ruolo di sostituta nell’opera in cui Margot è la protagonista. Segretamente boicottata dagli amici, Margot si fa prendere da ripetute crisi isteriche che minano il suo lavoro e i suoi affetti,spianando la strada alla prima di Eva. La giovane ottiene il favore del pubblicità e della critica capitanata dal cinico giornalista Addison De Witt (George Sanders),che percepisce il gioco sottile e crudele della donna dopo avere assistito accidentalmente al fallito tentativo di seduzione di Eva verso il fidanzato di Margot. La fama di Eva continua a aumentare,mentre Margot è relegata nell’ombra,ma Bill è al suo fianco e le propone di sposarlo. Non ancora soddisfatta,Eva tenta di rubare il marito a Karen ma De Witt si oppone al suo piano,minacciando di smascherarla rivelando la sua vera identità e i vari sotterfugi che l’avevano portata al successo. 
In cambio del silenzio esige che lei sia sua. E siamo nuovamente alla scena iniziale del film con il conferimento a Eva del più illustre riconoscimento per un’attrice teatrale,di fronte a tutte le persone che aveva raggirato. Alla fine,quando rientra a casa Eva trova ad attenderla una giovane che sembra pendere dalle sue labbra. In ultimo si deve segnalare nel film la particina di Marilyn Monroe ancora sconosciuta,nei panni di un’attricetta in cerca di una possibilità per farsi conoscere nel mondo del teatro.
Giudizio (legenda).
di 
Sara Memmi.  27 novembre 2007.

mercoledì 25 febbraio 2009

ROMA CITTA' APERTA (di Roberto Rossellini, 1945)

Nel 1945 l’Italia usciva vinta e stremata dalla Seconda guerra mondiale, una guerra che aveva visto il nostro paese schierarsi dalla parte sbagliata, complice degli orrori e dei misfatti della dittatura nazista. Nel 1945 Roberto Rossellini girò, con pellicola di seconda mano e in condizioni di semi-clandestinità, Roma città aperta, film simbolo di quel movimento artistico e culturale che sarebbe stato poi conosciuto con il nome di Neorealismo.Oggi che sono passati giusto sessant’anni dalla sua prima proiezione, il valore e le qualità del film sono rimaste intatte, e purtroppo ancora tragicamente attuali. Rossellini ci racconta la resistenza della capitale dal basso, dalla parte degli umili, del popolo, attraverso la condizione di chi ha perso tutto, ma non la propria dignità; e sequenze come l’assalto dei forni, o gli attacchi ai camion nazisti colpiscono ancora adesso per l’impressionante veridicità che nessun film hollywoodiano, per quanto grande, riuscì mai a replicare.
Molti critici all’epoca stroncarono il film per le componenti più propriamente melodrammatiche o da commedia poiché “ne inquinavano la purezza”: ma al contrario l’unione delle riprese “realistiche” con le sublimi interpretazioni di Fabrizi e della Magnani sono la forza in più della pellicola. I due attori dimostrarono insospettabili (fino ad allora) doti drammatiche contribuendo non poco all’immortalità del film, che è da considerarsi simbolo del Neorealismo proprio perché da un lato ne testimonia la grandezza artistica, dall’altro rivela il fallimento del suo assunto teorico.
 Di fatto il cinema non replica la realtà (il “pedinamento” di zavattiana memoria), ma, per quanto ne si avvicini, è sempre e soltanto una rappresentazione di essa: c’è una costruzione narrativa, la sceneggiatura, e c’è l’occhio della cinepresa, il regista, che sono il frutto di una scelta parziale, l’adozione di un punto di vista particolare, anche se superficialmente può sembrare neutro. Ma ciò non inficia affatto la sua vis drammatica, come dimostrano la fucilazione del prete Fabrizi, o l’immortale sequenza in cui la Magnani cade sotto i colpi dei nazisti mentre rincorre il camioncino che porta via il suo amante. A tal proposito scrisse il poeta Ungaretti: “T’ho sentita gridare Francesco e non t’ho più dimenticata”. Ogni altro commento sarebbe decisamente superfluo.
di Giulio Ragni, 7 dicembre 2005.


Il film è ambientato nell'inverno del '44 a Roma, dove avvengono scontri tra i soldati tedeschi e i partigiani. Racconta le vicende di un gruppo di persone che abitano un grande palazzo popolare alla periferia della città: un tipografo simpatizzante dei partigiani e la sua compagna; una vivace donna del popolo che finirà fucilata dai soldati tedeschi; un comunista ricercato dai nazisti che qui cerca rifugio ma viene arrestato in seguito alla spiata della sua ex-amante e morirà dopo essere stato torturato; un sacerdote, don Pietro, parroco del quartiere, che aiuta e protegge i partigiani e per questo finirà fucilato davanti ai ragazzi della parrocchia che sono venuti a portagli l'ultimo saluto. Girato con mezzi di fortuna nel 1945, in una città ancora martoriata dalla guerra, è considerato il primo grande capolavoro del neorealismo, di cui diventerà il simbolo all'estero. C’è una grande attenzione nel far rispecchiare sullo schermo la realtà quotidiana, ritratta senza idealizzazioni o abbellimenti estetici. Questo grazie allo stile semplice e diretto con cui il regista, il grande Roberto Rossellini, racconta le vicende dei suoi personaggi e alle magistrali interpretazioni di Aldo Fabrizi e Anna Magnani (la sequenza in cui Pina muore falciata da una raffica di mitra diventerà una delle più famose di tutta la storia del cinema). Il film ha un ritmo un po’ duro e a volte brusco, con forti contrasti tra bianco e nero, un linguaggio di grande immediatezza e gli attori sono letteralmente presi dalla strada (alcuni erano veri e propri disoccupati) così da portare sullo schermo l’immediatezza dei volti di tutti i giorni dando spazio alla lingua popolare e ai dialetti per rivolgere il suo obiettivo all’uomo nella sua avventura di ogni giorno con i suoi aspetti amari e quotidiani immerso in una società di cui il film denuncia i lati più difficoltosi e negativi.
Giudizio: 
di Boris Fietta, 20 dicembre 2005.

UNA PALLOTTOLA PER ROY (di Raoul Walsh, 1941)

High Sierra” titolo originale di ”Una pallottola per Roy” venne diretto da Raoul Walsh nel 1941. La sceneggiatura era firmata da William Burnett e John Huston, con protagonista Humphrey Bogart. Roy “Mad Dog” Earle , uscito dal carcere, organizza una rapina in un albergo :deve trovare i soldi per far operare Velma , la ragazza zoppa della quale è innamorato.
Velma lo respinge e Roy si consola con Marie,una ballerina che si è innamorata di lui e che rimarrà al suo fianco anche quando, tradito da un complice, verrà ricercato dalla polizia. H. Bogart diede al suo personaggio dei connotati diversi da quelli descritti dal cinema in quel momento:personaggi duri e spietati come James Cagney , Edward G. Robinson e Paul Muni. Roy è un uomo disilluso dalla vita, stanco, fondamentalmente buono , che si avvia con malinconica consapevolezza verso la sconfitta . Un perdente. Per sfuggire alla polizia , seguito da Marie , decisa a seguirlo fino in fondo , Roy fugge sulle montagne della Sierra Nevada . Per non coinvolgerla nella sua fine, riesce a liberarsi di lei e continuare da solo la fuga . Alla fine, a conclusione di una drammatica sequenza realizzata sulle pendici del monte Whitney , Roy viene crivellato dalle pallottole della polizia.
Costituendosi potrebbe avere salva la vita, ma il nostro decide di morire come coronamento di una vita sbagliata . La lunga della sequenza della caccia all’uomo è una delle più belle del cinema . La grandiosità della natura mette in risalto la piccolezza degli esseri umani,destinati alla sconfitta . Il regista dirigerà nel 1949 un remake in chiave western del film “Gli amanti della città sepolta” con Joel McCrea e Virginia Mayo.
Giudizio  (legenda).
di Sara Memmi.  22 Ottobre 2007.

lunedì 23 febbraio 2009

81st Academy Awards - I vincitori

Nella attesissima ottantunesima edizione della notte degli Oscar, il momento esclusivo in cui Hollywood celebra sé stessa, trionfa (confermando l’esito dei recenti Golden Globes, ma smentendo molti dei pronostici che non lo davano tra i favoriti) il film “The Millionaire” di Danny Boyle. La pellicola girata ed ambientata tra le baraccopoli di Mumbai si aggiudica anche l’altra ambita statuetta per la migliore regia. Ecco nel dettaglio tutti i vincitori della serata dell'81ma Academy Awards:

Miglior film: “The Millionaire”
Miglior regista: Danny Boyle (’The Millionaire”)
Miglior attore: Sean Penn (’Milk’)
Miglior attrice: Kate Winslet (”The Reader”)
Miglior attore non protagonista: Heath Ledger (”Il cavaliere oscuro”)
Miglior attrice non protagonista: Penelope Cruz (”Vicky, Cristina Barcelona”)
Miglior sceneggiatura: Dustin Lance Black (”Milk”)
Miglior sceneggiatura non originale: Simon Beaufoy (”The Millionaire”)
Miglior film d’animazione: “Wall-E”
Miglior fotografia: Anthony Dod Mantle (”The Millionaire”)
Miglior montaggio: Chris Dickens (”The Millionaire”)
Miglior scenografia: D. G. Burt e Victor J. Zolfo (”Il curioso caso di Benjamin Button”)
Migliori costumi: Michael ÒConnor (”La Duchessa”)
Miglior trucco: Greg Cannom (”Il curioso caso di Benjamin Button”)
Miglior colonna sonora: A.R. Rahman (”The Millionaire”)
Miglior canzone originale: “Jai Hò in “The Millionaire”
Miglior montaggio sonoro: Richard King (”Il cavaliere oscuro”)
Miglior suono: Ian Tapp, Richard Pryke e Resul Pookutty (”The Millionaire”)
Migliori effetti speciali: Eric Barba, Steve Preeg, Burt Dalton e Craig Barron (”Il curioso caso di Benjamin Button”)
Miglior film straniero: “Departures” (Giappone)
Miglior documentario: “Man on wire”
Miglior cortometraggio documentario: “Smile Pinki”
Miglior corto d”animazione: “La maison en petits cubes”
Miglior cortometraggio: “Spielzeugland”.
Premio “Jean Hersholt”: Jerry Lewis.

Matteo Bursi

mercoledì 18 febbraio 2009

LA VOCE NELLA TEMPESTA (di William Wyler, 1939)

Un compendio di tutti i temi chiavi del romanticismo da riscoprire con entusiasmo. Se avete letto il romanzoCime tempestose della scrittrice inglese Emily Brontë, appassionandovi alla storia d’amore di Catherine e Heathcliff, non dovete perdere la La voce nella tempesta, , ovvero la trasposizione fatta dal regista William Wyler nel 1939. Il film riporta fedelmente la vicenda descritta dalla Brontë, anche se viene omessa la parte riguardante i figli dei protagonisti. 
Ecco allora un breve riassunto della storia per rispolverare la memoria. L’orfano Heathcliff (Laurence Oliver), cresciuto presso gli Earshaw, una famiglia di coltivatori inglesi, s’innamora della loro figlia Catherine (Merle Oberon): Ma la relazione dei due ragazzi è osteggiata dal fratello di lei, Hindley, un uomo violento e alcolizzato. Così, sebbene Catherine ami Heathcliff, la sua ambizione la porta a sposare l’aristocratico vicino di casa Edgar Linto (David Niven), spingendo con il suo gesto Heathcliff a emigrare in America. Tre anni dopo Heathcliff, divenuto ricco e potente, ritorna con lo scopo di vendicarsi ed inizia il suo progetto sposando Isabel, l’ingenua sorella di Edgar. 
Il paesaggio caricato di stati d’animo, l’eroe tormentato ed una conturbante storia d’amore sono tre aspetti preponderanti sia nel libro, sia nella pellicola, che ci riportano immediatamente in un clima romantico. Heathcliff rappresenta, infatti, il romantico eroe titano, ipersensibile ed irrazionale, teso verso l’assoluto in un’ansia di libertà, che viene, però, inevitabilmente sconfitto dalla meschinità della società. Allo stesso tempo, le rocce rosse nella brughiera spazzata dal vento, rifugio eterno di Catherine e Heathcliff, diventano, come in un quadro di Friedrich o Turner, il luogo in cui l’individuo si immerge con lo spirito, alla ricerca dell’essenza divina della natura che avvolge l’universo. 
Attenendosi alle ferree regole delle Hollywood classica, gli sceneggiatori hanno, tuttavia, in parte addomesticato la selvaggia potenza contenuta nella pagine della Brontë in favore di immagini più eloquenti e patinate. Il risultato è, comunque, lodevole e la mano di Wyler, insieme alla fotografia di Gregg Toland (il mitico direttore della fotografia del capolavoro Quarto potere), emergono con chiarezza. Non per nulla, La voce nella tempesta risulta più vicina allo spirito del libro rispetto agli adattamenti cinematografici del testo, fatti nel 1970 da Robert Fuest e nel 1953 da Luis Buñuel. Il primo ci dà una versione troppo scolastica, mentre il seconda ci dà una messa in scena troppo debordante. Lo sceneggiato televisivo italiano del 1956 con Massimo Girotti e Anna Maria Ferrero con la regia di Mario Landi tende, invece, a smorzare i toni di un romanticismo cupo; mentre la fiction in due puntate con Alessio Boni e Anita Caprioli andata in onda nel 2004 è, al contrario, inficiata da un certo mieloso sentimentalismo familiare tipicamente televisivo.
Proviamo per un attimo a rivolgere la nostra attenzione all’opera complessiva di Wyler. Se i suoi più conosciuti Vacanze Romane e Ben Hur sono rimasti nell’immaginario filmico dello spettatore, i temi su cui ha lavorato costantemente il nostro cineasta sono, in realtà, ben più profondi. L’asse portante dei film di Wyler è, infatti, una situazione emotivamente complessa con personaggi contorti, indagati dal regista psicologicamente e socialmente, che vivono in un ambiente storicamente determinato. Pensiamo ai reduci della guerra de I migliori anni della nostra vita, alla scottante tematica dell’aborto in Pietà per i giusti e al rapporto lesbico fra le due insegnanti ne Quelle due (remake de La calunnia, datato 1936 e firmato sempre da Wyler), e siamo temporalmente solo nel 1951 e nel 1962.
Passando al cast, che dire della malia degli sguardi della coppia dei protagonisti? Merle Oberon è un trionfo di fulgida bellezza e giovinezza, come già era apparsa nel precedente Le sei mogli di Enrico VIII, trasformandosi nella più divina Anna Bolena mai vista sullo schermo e nel successivo Lydia, emblema di una femminilità che costruisce tutta la vita sulla passione d’amore. Il baronetto Sir Laurence Oliver (candidato al premio Oscar per questo ruolo) con il suo fare nobile e altezzoso ci regala una delle sue migliori performance giovanili (le altre saranno Orgoglio e pregiudizio e Rebecca la prima moglie). Non è escluso dagli elogi David Niven (Scala al paradisoIl giro del mondo in ottanta giorni e La pantera rosa sono i suoi film più famosi) che con il suo innato tocco di classe dà maggior brio al personaggio di Edgar, fin troppo lezioso nel romanzo. 
Nel dire buona visione, attendiamo che l’opera di Wyler venga presto rivalutata.
Giudizio (legenda).
di 
Maria Grazia Rossi.  13 giugno 2007.

MR.SMITH VA A WASHINGTON (di Frank Capra, 1939)

Si sa che il nome di Frank Capra è sinonimo di alti valori morali intrisi con una genuino ottimismo. Sostenitore ad oltranza del New Deal roosveltiano , il cinema del regista di origini siciliane è stato identificato dai suoi detrattori con un certo populismo e paternalismo conservatore. Tuttavia, se queste considerazioni possono eventualmente valere per le sue favole utopistiche (Signora per un giorno, Orizzonte Perduto, L’eterna illusione, La vita è meravigliosa, Angeli con la pistola), con la trilogia incentrata sull’uomo comune (E’arrivata la felicità, Arriva John Doe, Mister Smith va a Washington) la speranza dà gradualmente spazio a una cresciuta corrente di dubbio. 
In particolare, nel capolavoro Mister Smith va a Washington (candidato a undici premi Oscar e vincitore per la migliore sceneggiatura) Capra vede la società americana lacerata contemporaneamente da forze opposte di distruzione e rinnovamento, mentre il “buono” e il “cattivo” sono personificazioni delle stesse motivazioni. Andiamo con ordine. Il protagonista della pellicola è il giovane Jefferson Smith (un impareggiabile James Stewart), leader dei boy – scout del Montana, che viene scelto, proprio perché così naif, per completare il termine del mandato di un senatore deceduto inaspettatamente. Sebbene Smith non lo comprenda subito, il suo nuovo incarico l’ha fatto naufragare al centro della potente macchina politica di Taylor (l’attore Edward Arlond, il grande antagonista de L’eterna illusione e Arriva John Doe che con i suoi effetti di calcolata crudezza si assicura sempre la presa emotiva sullo spettatore), un potente uomo d’affari a cui appartengono non solo grandi parti delle industrie e dei media, ma anche dei politici, tra cui il personale eroe di Smith, il senatore Joseph Paine (un Claude Rains intenso come non mai). Taylor si aspetta che prima o poi Smith cada nelle sue fila, ma sarà una previsione errata. Quando Smith propone al senato di finanziare un campo nazionale per ragazzi nello stesso sito dove Taylor progetta di costruire una diga, il nostro protagonista si scontra con il gruppo politico. Taylor offre a Smith una carriera nel senato per la vita, se voterà a favore della legislazione che autorizza la diga, ma il giovane senatore, scioccato dall’offerta di Taylor, rifiuta di compromettere i suoi ideali. Eseguendo gli ordini di Taylor, Paine presenta false prove che accusano Smith di aver comprato la terra destinata al campo per i suoi profitti personali e propone la sua espulsione dal senato.
Il mondo sembra, così, aver perso il suo centro morale e Smith sente il peso della slealtà che si è abbattuto sopra di lui. Prima di lasciare Washington, visita il Memoriale di Lincoln (ora scuro e immerso nell’ombra, in contrasto alla sua prima visita quando era proiettato in un’eterea luce bianca). Mentre siede solo, è sorpreso da Clarissa Saunders (Jean Arthur), la sua segretaria al senato. Come le altre eroine della trilogia sull’uomo comune (Barbara Stanwyck ne Arriva John Doe e sempre Jean Arthur ne E’ arrivata la felicità), Saunders inizia il film come una cinica mercenaria che immediatamente taccia l’eroe di ipocrisia e cerca di disilluderlo dai suoi propositi “buonisti”; ma di fronte alla sua intensa grandezza d’animo a poco a poco si converte totalmente a supportarlo nei suoi ideali. La protagonista femminile convince Smith che lasciare Washington senza lottare rappresenta una pericolosa vittoria per la macchina politica corrotta dal momento che l’uomo ha responsabilità non solo verso se stesso e i ragazzi che lo considerano un modello, ma anche verso l’intero concetto di democrazia sfidato da Taylor. 
Guidato da Saunders, il paladino di Capra va in battaglia. Fa ostruzionismo contro il progetto di legge di Taylor, sperando di informare i membri costituenti del Senato che l’uomo con i suoi meschini affari sta abusando delle loro libertà democratiche. Di conseguenza, la sua inevitabile espulsione dal senato avrà la funzione di una sorta di purgatorio che lo forgerà per le future battaglie che lo aspettano. 
Naturalmente, come in tutte le pellicole firmate da Capra (tranne L’amaro tè del generale Yen) l’happy end ci sarà, sebbene la vittoria non sia fine a se stessa. Perciò, dobbiamo andare più in là del trionfo realizzato da Smith e partire dalla sfaccettata caratterizzazione di Paine, scisso fra la sua freddezza calcolatrice e nobili sentimenti. A ben guardare, il film si concentra più sulla crisi di Paine che su Smith. Infatti, sappiamo che Paine è diventato adulto con la stessa fede democratica di Smith, ma, poi, l’assassinio del padre di Smith, il migliore amico dello stesso Paine, ha modificato le sue convenzioni: risolutezza e fermezza sono inutili in una società irrimediabilmente disonesta e la lotta individuale non ha speranza di opporsi. Così, Paine ha preferito compromettersi per potere servire lo Stato in mille altri modi onesti. A questo proposito, può essere indicativo il colloquio fra Taylor e Paine dove quest’ultimo indietreggia con uno sguardo spaventato e un’andatura sussultante e incerta davanti agli ordini di Taylor che, invece, domina al centro dell’inquadratura. Comunque, Smith, come tutti gli altri eroi caprini, da Longfellow Deeds a George Bailey, è un poeta del cuore e, quindi, per lui Paine non ha fatto altro che vendere la sua anima a Taylor, diventando il paradigma di quello che avrebbe potuto essere lo stesso Smith, se avesse accettato l’allettante offerta di Taylor. 
D’altra parte, non dobbiamo mai dimenticare che, alla medesima maniera di altri autori del cinema classico, quali Alfred Hitchcock e John Ford, le tematiche di Capra sono sostenute da una profonda fede cristiana. Appare, così, più facile capire come mai per il regista italo – americano il passivo idealismo vale tanto quanto il più abbietto cinismo e gli ideali devono essere costantemente e vigorosamente difesi, mentre allo stesso modo perdere la fede è il più grande errore che si possa fare. Vogliamo concludere ricordando l’analisi che Leonardo Gandini ha compiuto su Frank Capra. Secondo lo studioso, per il regista dirigere un film significa orchestrare in maniera fluida un racconto per immagini, di modo che questo risulti originale e interessante grazie soprattutto a una galleria di figure e situazioni capaci di attirare il pubblico. 
Un doveroso consiglio finale: se non siete in vena di buoni sentimenti e satire al latte e miele, astenetevi dal frequentare la filmografia di Frank Capra. Come sempre tutto il segreto sta ad intendersi. 
di Maria Grazia Rossi, 6 dicembre 2006.     

TEMPI MODERNI (di Charlie Chaplin, 1932)

Chaplin considerava i film sonori come la rovina”dell’arte più antica del mondo,l’arte della pantomima,in quanto distruggono la suprema bellezza del silenzio”.Tempi moderni ,infatti,benché realizzato in pieno sonoro,è ancora concepito come un film muto. Esiste sì una colonna sonora ma è completamente atipica rispetto ai film parlati al 100 %,la cui moda era stata lanciata da Hollywood: in Tempi moderni hanno spazio musica e rumori,voci che fanno da sottofondo ma non dialoghi veri e propri; ma non dialoghi veri e propri;lo stesso Chaplin,il protagonista,farà udire la sua voce (per la prima volta dallo schermo) esibendosi in una filastrocca priva di senso. 
Tempi moderni rappresentò anche l’ultima apparizione sullo schermo di Chaplin nelle vesti di Charlot, il piccolo vagabondo con il cappello a bombetta troppo stretto, le scarpe troppo grandi,la giacca striminzita,i calzoni troppo larghi e col bastone da passeggio che simboleggiava un perduto benessere. Ecco la trama: Charlot è un operaio alla catena di montaggio;il suo lavoro consiste nello stringere i bulloni che passano sul nastro trasportatore. Viene anche utilizzato come cavia per sperimentare un nuovo metodo destinato a incrementare la produttività: un macchinario che nutre automaticamente gli operai mentre questi lavorano. 
Charlot non resiste,dà in escandescenza tanto da venir ricoverato in manicomio. Dimesso,si trova disoccupato e,quando per pura cortesia raccoglie una bandiera rossa caduta da un camion,viene arrestato perché ritenuto un pericoloso sovversivo. In carcere, sempre per caso,impedisce un’evasione e così viene rimesso in libertà. La vita fuori dal carcere è talmente dura che Charlot finisce per rimpiangere quel periodo di reclusione e tenta in ogni modo di farsi nuovamente arrestare. L’occasione gli viene offerta dal furto di una pagnotta ad opera di una “monella” (Paulette Goddard) con la quale,dopo varie peripezie,decide di convivere. Egli trova un impiego come guardiano notturno presso un grande magazzino ma il tutto si risolve in un disastro e Charlot viene messo in carcere. Dopo questa parentesi fa ritorno in fabbrica,ma anche qui a causa di uno sciopero resta di nuovo senza lavoro e si ritrova sulla strada . Nel frattempo la simpatica monella è divenuta ballerina in un locale notturno e fa in modo che Charlot venga assunto come cameriere e cantante. Anche questo nuovo impiego si conclude in modo disastroso e quando giungono degli assistenti sociali che vogliono prendersi cura della monella. Charlot e la giovane sono costretti a fuggire:l’ultima inquadratura del film li mostra mentre camminano mano nella mano lungo una strada di campagna. 
Il film fu accolto con molta perplessità dai critici del tempo. Ma l’arte di Chaplin sopravvisse alle critiche;la qualità principale del film è il suo essere fuori dal tempo; in”Tempi moderni”sono raccolte alcune delle più riuscite prove di Chaplin attore. W.C.Fields, per insultarlo, lo definiva”il miglior ballerino sulla scena” e lo è: le sequenze iniziali,quando Charlot è ripreso al nastro trasportatore della catena di montaggio, sono coreograficamente perfette. Un solo attimo di distrazione per cacciar via una mosca impertinente determina il caos nell’intero reparto. Quando Charlot cade nel delirio più completo,si esibisce in una pazza danza dal ritmo perfetto:le chiavi inglesi,da strumento di lavoro,si trasformano in arnesi demoniaci che avvitano qualunque cosa assomigli,seppur lontanamente ad un bullone,come i bottoni del cappotto di una signora. 
Nella sequenza del refettorio della prigione,quando,dopo aver reso più saporito il cibo spargendovi sopra una massiccia dose di droga,scambiata per sale,Charlot si esibisce in frenetiche piroette accanto alla fila dei carcerati,o raggiunge punte di altissimo virtuosismo acrobatica danzando sui pattini ai grandi magazzini. 
Il genio di Chaplin raggiunge la massima espressione quando Charlot raccoglie la bandiera rossa che serviva a un autocarro per segnalare la sporgenza del carico e cerca inutilmente di raggiungere l’automezzo per riconsegnarla,ignaro del fatto che egli ha incrociato una massa di dimostranti i quali lo seguono quasi fosse il capo. E’una delle più grandi rappresentazioni simboliche di un essere umano vittima del proprio destino.
Giudizio (legenda).
di 
Sara Memmi.  4 dicembre 2007.

UN CHIEN ANDALOU (di Luis Bunuel, 1929)

Può un film, o peggio, un cortometraggio di un quarto d’ora, essere “cattivo”? Può un regista, o peggio, un artista, decidere di aggredire con violenza l’occhio e il cervello del suo fruitore con piena consapevolezza e volontà? Scordatevi i vari Quentin Tarantino, Enigmista, Dario Argento e i deliri di onnipotenza voyeuristica di Mel Gibson, dei quali comunque questo film è il diretto antenato. Colpire al cuore lo spettatore significa sconvolgerne la mente, afferrare i suoi pensieri e mescolarli, scompaginarli, ingarbugliarli fino a ridurli ad un groviglio inestricabile di sensazioni (ricordi?) e supposizioni. 
Il primo cortometraggio che Luis Buñuel realizzò con la collaborazione del suo recente amico, uno dei più grandi Surrealisti, Salvador Dalì, si compone di una serie di immagini, potremmo dire mentali, ordinate in una sequenza di quindici minuti durante la quale, proprio come se avesse fissato un quadro surrealista, lo spettatore viene afferrato dalla sua (troppo) comoda posizione e scaraventato in un mondo di cui non comprende le regole, e il cui unico scopo è sconvolgerlo, scombussolarlo. Egli tenta di capire, di ricucire i frammenti del mosaico, ma qualcosa inevitabilmente ne stravolge le riflessioni, qualcosa fugge il suo posto. 
La critica ha visto Un chien Andalou (lett. Un cane Andaluso) come una provocazione anticlericale e antiborghese (si veda anche Il fascino discreto della borghesia), ma io la definirei più che altro una provocazione allo spettatore e al cinema tutto (e ricordiamo che erano ancora gli anni del muto): nella prima scena, la più famosa, in cui un uomo (Buñuel stesso) taglia l’occhio di una donna con un rasoio, questa provocazione viene annunciata al fruitore, il cui occhio e il cui pensiero vengono simbolicamente, appunto, “tagliati”, dall’incomprensibilità delle scene.
Una provocazione che negli anni della sua nascita non venne mai capita: infatti L’âge d’or, il film che seguìUn chien Andalou, fu ritirato dalla polizia nel giorno della sua prima proiezione in seguito alla distruzione dello Studio 28, dove veniva proiettato, da parte di un gruppo di giovani estremisti di destra. Il sovvertimento di ogni autorità, reale o semplicemente mentale, ha sempre trovato degli ostacoli, che però non hanno mai fermato le paranoie di Dalì o la violenta protesta di Buñuel. Una genialità che si cercò di asservire a un partito e a una politica, ciò che i Surrealisti tentavano disperatamente di evitare. 
Disperata è la ricerca che lo spettatore si ritrova suo malgrado ad affrontare, terribile lo smarrimento che si prova di fronte a queste immagini. Come in un sogno di quindici minuti, ci si sente in balia di un’autorità superiore, quasi divina, e paradossalmente, nello stesso tempo, privi di qualsiasi ordine e ragione. Come capire Un chien Andalou? Come capire un quadro Surrealista? 
Lo spettatore si ritrova in una posizione non parzialmente ma completamente attiva, di fronte ad una serie di scene come “buttate lì” e alla necessità istintiva di spiegarle, di razionalizzarle. Una necessità che viene sistematicamente negata, stravolta. 
Sì, il cinema può essere “cattivo”.
GiudizioNon do un voto a questo film, perché sarebbe impossibile. Inoltre, correrei il rischio che Buñuel resuscitasse e mi venisse a cercare per aver ingabbiato il suo cortometraggio nelle regole del “bello” e del “brutto”.
di 
Chiara Palladino.  5 settembre 2007.

INTOLERANCE (di David W Griffith, 1916)

Intolerance è stato uno dei primi film muti in grado di esprimersi con tecniche narrative multiformi, ben coordinate, tali da avvicinare il cinema  ai più diffusi dispositivi del romanzo. 
Il film esce nel 1916, a breve distanza di tempo dal successo di Nascita di una nazione, un’opera  quest’ultima grandiosa e originale che scava sui più brutali disordini razziali avvenuti al termine della guerra di secessione americana; un film dai tratti epici che per la prima volta dimostra  quanto il cinema possa influire  sui movimenti di opinione portandoli a forme di manifestazione anche di una certa gravità.  Nascita di una nazione è una pellicola analitica, sull’incomunicabilità tra razze, ben costruita, non sempre però onestamente interpretata da alcuni critici dell’epoca che hanno finito per renderla oggetto di facili strumentalizzazioni  razziali e xenofobe, talmente gravi da mettere Griffith in guai seri. Il regista americano sarà costretto per scagionarsi dall’accusa di razzismo, a girare subito dopo Intolerance un film che si inoltra nei meandri più oscuri dell’intolleranza. 
Nascita di una nazione creò delle vere e proprie manifestazioni di piazza contro Griffith, accusato di giustificare con il film tutte le vessazioni  subite dalla popolazione nera,  subito dopo la guerra di secessione, da parte del Klu Klux Klan. A causa dei contenuti del film vi furono a Boston e a Philadelphia  duri scontri tra dimostranti e polizia, che provocarono perfino alcune  morti e numerosi feriti.  Inoltre in una metropoli americana, un ragazzo bianco rimasto fortemente influenzato dal film, all’uscita dalla sala ha ucciso un giovane nero. Il film, con la sua carica suggestiva e la straordinaria penetrazione mediatica, favorì addirittura la ricostituzione della vecchia organizzazione punitiva del Klu Klux Klan.
Intolerance al contrario è una pellicola che  descrive con precisione e notevole veemenza alcune reiterate atrocità prodotte nella storia dell’uomo dall’intolleranza e dall’odio, condannandole apertamente a più riprese. Il film esce nelle sale in un momento storico assai difficile in cui tutto ciò che riguarda la normale vita dei cittadini sembra possa precipitare da un momento all’altro  verso un’esistenza caotica,  insolita, dalle sempre più fosche e tragiche attese.
L’Europa   è già in guerra,  con numerosi conflitti che la rendono arroventata di lutti e gli Stati Uniti stanno per prendere decisioni importanti, che li porteranno in breve tempo a  intervenire al fianco degli alleati europei (Francia, Gran Bretagna, Italia). Il film di Griffith risentirà molto del sanguinoso contesto storico in cui viene prodotto, difatti gli abituali spettatori cinematografici, assillati  da grosse preoccupazioni per l’immediato futuro,  preferiranno vedere film spensierati o evasivi anziché assistere a situazioni che mostrano gli effetti più efferati della violenza. Le grandi ambizioni di  Intolerance verranno  perciò frustrate dagli incassi, che non riusciranno a coprire neanche i costi di produzione. Per realizzare Intolerance sono stati necessari più di 2,5 milioni di dollari, di cui una parte sborsati dallo stesso Griffith; l’insuccesso commerciale  farà fallire il produttore e porterà  il regista americano ad  una umiliante condizione debitoria che renderà amaro il resto della sua vita.
Intolerance è un’opera indimenticabile, ipnotizzante, in cui per la prima volta le folle in movimento degli scioperi diventano protagoniste per lungo tempo di scene chiave  dando alla fotografia cinematografica un potere irresistibile, nuovo, capace di  competere con tutte le arti del raccontare. Il film  influenzerà i maggiori teorici cinematografici russi del momento come Ejzenstein, Pudovkin, Kulesov  suggerendo inquadrature e modi di montare la pellicola del tutto inediti che ritroveremo in alcuni  film seguenti, sempre  di quegli anni, come  La corazzata Potemkin e Sciopero, entrambi di Ejzenstein. Per Intolerance furono usate più di 5.000 comparse e 100 kilometri di pellicola. Gli imponenti  addobbi scenici e la costruzione di giganteschi mezzi a sostegno delle riprese, tra i quali una vera e propria ferrovia addetta al trasporto dei materiali per le scene e delle comparse, hanno rappresentato per l’America   di allora un segnale di progresso industriale della  settima arte, di forti investimenti in un paese dai miti facili ma sempre desideroso di crescere culturalmente. 
Alcune colossali scene di massa, riprese dall’alto, sono state girate con la telecamera sistemata in un pallone aerostatico, da un’angolazione capace di favorire una  composizione fotografica diversa  che immetteva sullo schermo piani di ripresa inediti, lontani sempre più da quelli tipici, estremamente semplificati del teatro.Intolerance richiama per stile alcuni film italiani prodotti tra il 1912 e il 1915, come Cabiria di Giovanni Pastrone, pellicole di grandi scenari e costumi storici,  già ricche di  interessanti assemblaggi fotografici e di un pathos  straordinario di chiara derivazione teatrale; Cabiria, uscita nel 1914, è stata sceneggiata da Gabriele D’Annunzio. 
Intolerance è un film speciale, dalle  intonazioni suggestive continuamente  elevate, di profondo impatto emotivo, dove delirio mistico e razionalità si alternano quasi perfettamente in un valzer di situazioni dal sapore  sempre rapsodico e seducente. Il film è portatore di un messaggio etico coinvolgente che tende, per la sua stessa caratteristica  costitutiva, a divenire universale,  mettendo in primo piano la grave questione dell’odio manifestatasi in varie epoche attraverso l’impeto dell’intolleranza verso il diverso e la prevaricazione feroce delle istituzioni sull’individuo, in particolare su quello ritenuto perdente che  di solito coincide con il socialmente debole o l’emarginato dalla società. 
Il film si inoltra  nel passato più remoto della storia esaminando  un arco di tempo piuttosto ampio che va dal 535 a.c. al secondo decennio del ‘900,  epoca quest’ultima in cui Griffith girò il film.
Griffith porta sullo schermo  quattro  storie parallele,  raccontate in modo alternato che rimangono separate fino alla fine, unite per tutta la durata del film solo da un duplice filo conduttore comprendente da una parte l’odio e l’intolleranza e dall’altra  l’amore e la carità. Ciascuna vicenda viene narrata con attori diversi. 
Dapprima il racconto è lento, semplice, facile da seguire, per poi accelerare  in significato e composizione degli intrecci con riprese   brevi ma veloci, dal contenuto sempre più drammatico, che  sfociano verso  un finale  ricco di suspense dove trionfano sia l’odio sia l’amore, in una loro ripartizione equa tra i personaggi del film che lascia  intendere  come sia difficile trovare una soluzione a un problema come quello dell’intolleranza, in grado di presentarsi con vesti sempre diverse e travestimenti psicologici complicati che esortano anche ad accettarla in funzione di un demonistico e ambiguo piacere.
Nel film si possono ammirare  importanti  invenzioni, quali il montaggio parallelo e quello alternato che consentono di seguire tutte e quattro le storie con una curiosità sollecitata all’estremo e una leggerezza  poetica incantevole. 
L’iride e il mascherino già usati in altri film confermano in Intolerance la loro utilità, sottolineando con la loro applicazione  su alcuni particolari filmici quali le immagini decisive  per comprendere la trama, l’importanza  che essi assumevano nel film muto. L’accompagnamento musicale per pianoforte e orchestra dà grande tono al film rendendo certe situazioni fortemente melodrammatiche. Numerosissime le pagine di sovraimpressioni scritte, tali da dare l’idea di un libro, la loro lettura è un po’ faticosa ma indispensabile per seguire con maggior scorrevolezza gli episodi del film.
Una delle storie di Intolerance si riferisce ad alcuni episodi della vita di Gesù, dal miracolo della trasformazione dell’acqua in  vino durante il matrimonio degli sposi di Cana in Galilea, alla passione e crocifissione di Cristo nella collina del Golgota a Gerusalemme; un’altra si svolge nel 1572, anno in cui fu eseguita su ordine del re Carlo IX, sotto l’influenza della sorella Caterina de Medici, la strage del movimento  protestante degli ugonotti, nota come la notte di San Sebastiano. La terza storia si cala negli ultimi giorni di Babilonia,  intorno al 539 a.c., mostrando la sconfitta di Ciro da parte dei babilonesi e la successiva rivincita del condottiero persiano che grazie al tradimento di alcuni sacerdoti, che adoravano un altro Dio, conquisterà la città. La quarta è ambientata intorno al 1916, anno in cui è uscito il film, e mostra da una parte l’ascesa politica del grande movimento moralista delle donne, con tutte le  loro discutibili  prese di posizione verso il magnate dell’industria Jenkins e i figli delle famiglie disagiate, dall’altra le difficoltà dell’ attività produttiva americana che scaricava  la crisi sui lavoratori  e le loro famiglie. Il film analizza tutti gli aspetti della crisi economica, anche le sue conseguenze nelle famiglie, osservando, attraverso una coppia di poveri innamorati che subiscono numerosi maltrattamenti sia da parte delle istituzioni sia da alcuni malavitosi, i suoi effetti più significativi nella vita privata.
Dal punto di vista un po’ più filosofico si può sostenere che questa opera di Griffith rappresenti  il tentativo di dare al cinema un potenziale istruttivo nuovo, non solo strettamente narrativo, scheletrico, ma anche concettuale, mostrando l’intolleranza nelle sue molteplici sfaccettature interpretative, in quella profondità più misteriosa che la costituisce, lontano quindi da ogni valutazione empirica o fantasiosa.
Giudizio (legenda).
di Biagio Giordano. 11 Gennaio 2009.

lunedì 16 febbraio 2009

80th Academy Awards - Una snella ottantesima edizione

L’ ottantesima edizione degli Academy Awards non vede alcun film protagonista assoluto, come già in alcune delle ultime edizioni. Quattro premi a No Country for Old Men dei fratelli Coen, ben tre premi a The Bourne Ultimatum nelle categorie tecniche, due a There Will Be Blood.
Film dell’anno è eletto indiscutibilmente No Country for Old Men che vince in quasi tutte le categorie artistiche maggiori: miglior attore non protagonista allo spagnolo Javier Bardem (l’origine europea è stata una costante di tutti gli attori premiati), miglior sceneggiatura non originale (adattamento dal romanzo di Cormac McCarthy), miglior regia e subito dopo miglior film (tanto che Joel e Ethan Coen non fanno nemmeno in tempo a scendere dal palco tra un premio e l’altro).
There Will Be Blood conquista il meritatissimo riconoscimento a Daniel Day-Lewis come attore protagonista e quello per la fotografia, particolarmente espressiva ed efficace, di Robert Elswit. Dato l’altissimo spessore cinematografico dell’opera di Paul Thomas Anderson sarebbe stato più giusto una sorta di pareggio con No Country for Old Men per i gradini più alti del podio; in particolare il premio per la regia sarebbe stato pienamente meritato. There Will Be Blood è un film monumentale non per l’interpretazione di Daniel Day-Lewis, comunque straordinaria, ma per le impressionanti idee di messa in scena messe in atto da Anderson.
Tra le attrici protagoniste primeggia il trasformismo di Marion Cotillard, sorprendente Édith Piaf in La Vie en Rose, mentre come non protagonista vince a sorpresa Tilda Swinton per Michael Clayton. Premi pienamente meritati ma l’Academy ha a volte il difetto di premiare gli attori “in blocco” e così come c’è stato l’anno degli afroamericani (che vide protagonisti Halle Berry e Denzel Washington), questo è stato l’anno degli europei e ciò ha penalizzato un’interpretazione originale e raffinata come quella di Cate Blanchett in I’m not There.
Miglior film d’animazione è Ratatouille della Pixar; benché il significato di questa categoria non sia poi così chiaro (dal momento che l’animazione non è un genere ma più propriamente un mezzo espressivo e un film animato può tranquillamente concorrere anche nelle altre categorie) e ha pertanto un vago sapore di ghettizzazione, non si può negare che la straordinaria qualità artistica e tecnica raggiunta dagli animatori Pixar e l’eleganza della messa in scena abbiano indiscutibilmente meritato questo riconoscimento. Tra i due avversari,Surf’s Up e Persepolis, forse solo quest’ultimo poteva aspirare alla vittoria, in virtù delle proprie personalissime ed efficaci scelte grafiche tratte dal bel fumetto di Marjane Satrapi.
Il 2008 vede anche arrivare il secondo riconoscimento (dopo quello per The Aviator) all’arte di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, migliori scenografi per Sweeney Todd di Tim Burton; l’Oscar per i costumi va invece alla sfarzosità diElizabeth: The Golden Age. Tra le colonne sonore primeggia Dario Marianelli con l’elegante partitura di Atonement; piena soddisfazione per il compositore italiano ma l’ottimo lavoro che Michael Giacchino ha fatto per Ratatouille poteva legittimamente aspirare al premio.
Alan Menken, pluricandidato per le canzoni del disneyano Enchanted, resta a mani vuote: trionfano infatti Glen Hansard e Markéta Irglová per Once. Assolutamente lodevole la scelta di premiare due autori pressoché sconosciuti e decisamente non-hollywoodiani ma resta lampante l’esclusione dei brani di Into the Wild dalle nominations. Film straniero è l’austriaco Il Falsario di Stefan Ruzowitzky, sconfitta invece per il corto italiano Il Supplente di Andrea Jublin.
La cerimonia nel complesso è stata piuttosto snella, forse lo sciopero degli sceneggiatori protratto fino a poche settimane fa ha pesato nell’organizzazione dello show, rendendolo meno ricco ma decisamente meno noioso, anche se i discorsi del presentatore Jon Stewart e dei vari premiatori non si sono discostati dalla consueta banalità; una premiazione un po’ più austera del solito, dunque, ma il cui bilancio dal punto di vista dell’arte cinematografica è decisamente positivo.
di Valentina Alfonsi, 27 febbraio 2008.

80th Academy Awards - La notte degli Oscar

Ottanta e non sentirli. Cosi, passato l’uragano dello sciopero degli sceneggiatori, Hollywood soffiare senza incertezze su questo importante traguardo, celebrando, rievocando, tutta la storia del cinema che è passata di li. E chi si aspettava verdetti scontati è rimasto interdetto, ulteriore dimostrazione di come, malgrado l’età, da queste parti ci sia ancora voglia di stupirsi e di stupire. Cosi, condotta magnificamente dall’irriverente comico Jon Stewart (noto negli States per un show tutto suo, in cui mette alla berlina tutto e tutti), si consuma la notte più attesa da chi fa il cinema e da chi lo ama. I primi premi assegnati sono, per dirla tutta, prevedibili e scontati. “Elizabeth: The Golden Age” vince per i migliori costumi mentre, “Ratatouille” vince facilmente come miglior film d’animazione. Poi arriva il premio per il miglior trucco. E qui arriva la prima sorpresa o, per meglio dire, la sua anticipazione. Ad aggiudicarselo è infatti “La vie en rose”, film francese sulla vita della della cantante Edith Piaf, e qui viene il sospetto che la sua interprete, l’outsider Marion Cotillard possa nutrire delle più che legittime speranze. Ma non c’è tempo per riflettere e lo show che deve andare avanti inietta, in noi italiani, un po’ di orgoglio patrio per la conferma, se ce ne fosse stato bisogno, di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, sdoganati non più di tre anni fa quando vinsero, dopo innumerevoli candidature, l’Oscar per la miglior scenografia di “The Aviator”, che stavolta vincono l’ambita statuetta per i set gotici di “Sweeney Todd” (uno dei grandi delusi, sia in nomination, che in premi vinti, dato che questo sarà l’unico per il film di Tim Burton) e per l’affermazione del pisano Dario Marianelli che dopo una nomination, riesce ad aggiudicarsi il premio per la migliore colonna sonora originale di “Espiazione” (altro “grande” atteso lasciato a bocca asciutta). Ma come è detto è l’Oscar delle affermazioni inaspettate. Non ci si può quindi non emozionare di fronte al volto sconvolto di Tilda Swinton, vincitrice a sorpresa come miglior attrice non protagonista. Qui la favorita era l’australiana Blanchett per la sua incredibile trasformazione in Bob Dylan di “Io non sono qui” che ha dovuto abdicare, e mai termine qui fu più esatto, in favore anche di un’incredula Marion Cotillard, la cui reazione ci ricorda che cosa siano gli Oscar. Li possiamo snobbare, dire che sono soltanto un premio quando, i premi e le categorie nell’arte non dovrebbero nemmeno esistere. Si può dire che, in fondo, è tutto pilotato e che il cinema americano non è necessariamente il centro del mondo di celluloide. Poi però, regolarmente, quando ci si trova in quel cinema e, magari, viene chiamato il proprio nome è come se per un attimo ci si ricordasse perché si è cominciato a fare quel lavoro. Ci si sente “rocked” (scossi, sconvolti, appunto), parte di una storia  lunga quasi cento anni, fatti di nomi incredibili e momenti indimenticabili ( che vengono, come, immancabilmente rievocati lungo tutta la serata) e ci si scioglie come bambini. E’ quell’attimo che artisticamente ti cambia vita e poi, via, si va avanti. Ancora Europa nella notte d’America: lo spagnolo Bardem, vince come miglior attore non protagonista nel film dei Coen ( che poi vincerà anche nelle altre categorie principali)  e l’irlandese Daniel Day Lewis (miglior attore ne “Il petroliere”, altro grande deluso). I Coen, appunto, che dopo i mezzi passi falsi di “Ladykillers” e “Prima ti sposo, poi ti rovino”, vincono con il loro nuovo riconosciuto capolavoro, “Non è un paese per vecchi”, le statuette per la miglior sceneggiatura non originale, per la regia, e per il miglior film.
Quali conclusioni si possono trarre dalla serata? Molte e sicuramente stimolanti. Intanto che per la prima volta in assoluto le statuette per i miglior interpreti sia maschili che femminili, protagonisti e non, vanno a tutte ad attori e attrici non americani/e e in particolar modo, tutti europei. Una coincidenza del destino oppure un’inaspettata apertura da parte dell’Accademy? Sicuramente un segno inequivocabile e un conseguente riconoscimento di una crescita di professionalità nell’”industria” europea. Non è sicuramente qui il caso di tirar le orecchie agli attori italiani ma  dovrebbe essere, almeno, motivo di riflessione. Le porte di Hollywood sono aperte anche a loro, manca solo la giusta determinazione per varcarle. Poi, ovviamente, non possiamo non parlare dei grandi delusi. Prima di tutto lo spettacolare affresco di Paul Thomas Anderson, “Il Petroliere”, che se in partenza era dato tra i favoriti, ha visto man mano andar via tutti i premi, dovendosi accontentare soltanto della “fotografia” e del “miglior attore”. “Sweeney Todd”, che come già detto era escluso dai premi maggiori, si è visto premiare soltanto per la scenografia mentre è ancora più clamoroso quanto avvenuto con “Into the Wild”. Il film di Sean Penn è magnifico sotto tutti i punti di vista ma è come caduto nel dimenticatoio, insieme alle musiche travolgenti di Eddie Vedder. “Espiazione”, probabilmente sopravvalutato, si può comunque considerare deluso dal solo premio per la colonna sonora.“Sicko” di Michael Moore, stavolta scalzato da “Taxi to the Dark Side”, denuncia delle violenze dei soldati americani nei confronti dei prigionieri (“Annunciato” peraltro dai soldati stessi in diretta dai territori di guerra…). Sorridono, invece, l’ex-spogliarellista Diablo Cody che firma la vincente sceneggiatura originale di “Juno” ( e ora speriamo non si perda, data la carenza di idee vergini nel panorama del cinema americano) e il terzo capitolo di “Bourne” che, senza tante velleità, riesce ad affermarsi nelle categorie tecniche di miglior montaggio e mixaggio sonoro e in quella “nobile” di miglior montaggio. Miglior film straniero è il tedesco “Il Falsario”, mentre non ce la fa per un soffio “Il supplente” di Andrea Jublin, nei corti, ma, va detto, che probabilmente nemmeno lui avrebbe scommesso, giusto un anno fa, di trovarsi seduto li. 
Le luci si spengono e le stelle tornano a casa. Lasciandoci addosso la sensazione che qui tutto è possibile, che ognuno può realizzare il suo sogno, perché qui gli angeli esistono davvero.
di Stefano Cavalli, 25 febbraio 2008.

80th Academy Awards - I vincitori

24 febbraio 2008 - E' andata in scena al Kodak Theatre di Los Angeles l'ottantesima edizione della Notte degli Oscar. Miglior film dell'anno è "Non è un paese per vecchi", dei fratelli Coen (vincitori anche del premio alla regia). Di seguito l'elenco di tutti i vincitori.  (Matteo Bursi)

MIGLIOR FILM
“Non è un paese per vecchi” 

MIGLIOR REGISTA
“Non è un paese per vecchi” Joel Coen and Ethan Coen 

MIGLIOR ATTORE 
Daniel Day-Lewis in “Il Petroliere” 

MIGLIOR ATTRICE
Marion Cotillard in “La Vie en Rose” 

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA 
Javier Bardem in “Non è un paese per vecchi” 

MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA 
Tilda Swinton in “Michael Clayton” 

MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE
“Juno” 

MIGLIORE SCENEGGIATURA NON ORIGINALE
“Non è un paese per vecchi” 

MIGLIOR FILM D'ANIMAZIONE
“Ratatouille”

MIGLIORI SCENOGRAFIE 
“Sweeney Todd” 

MIGLIOR FOTOGRAFIA 
“Il Petroliere” 

MIGLIORI COSTUMI
“Elizabeth: The Golden Age” 

MIGLIOR MONTAGGIO
“The Bourne Ultimatum” 

MIGLIOR FILM STRANIERO
“The Counterfeiters” Austria 

MIGLIOR TRUCCO
“La Vie en Rose” 

MIGLIOR COLONNA SONORA ORIGINALE 
“Espiazione” 

MIGLIOR CANZONE ORIGINALE
“Falling Slowly” - “Once”

MIGLIOR SONORO
“The Bourne Ultimatum” 

MIGLIORI EFFETTI SONORI
“The Bourne Ultimatum” 

MIGLIORI EFFETTI SPECIALI
“La bussola d'oro”