domenica 19 aprile 2009

CASINO ROYALE (di Martin Campbell, 2006)

L'agente segreto più famoso al mondo con la licenza di uccidere, torna sul Grande schermo, con una storia che ci riporta alle origini della Saga di spionaggio più famosa nel mondo del cinema "Casino Royale". Ma cerchiamo di riordinare il tutto: il James Bond degli ultimi tempi, diciamolo era diventato un po' troppo anzianotto per i gusti dei "Bondiani doc"; infatti, aveva, nell'ultimo episodio uscito nel 2002, "La morte può attendere", l'età di un uomo maturo. Pierce Brosnan, all'epoca aveva poco meno che 50 anni. Farlo ringiovanire dimezzandogli quasi l'età ha indicato il desiderio dei produttori di ricercare oggi un pubblico più giovane, stravolgendo completamente il clichè precedenti. E' stata comunque un'ottima idea: ne hanno beneficiato quasi tutti! Dal cast alla sceneggiatura (del premio Oscar Paul Haggis), dalle scenografie agli effetti speciali (qui ulteriormente ridotti) ai famosi gadget costruiti da Q (qui inesistenti). Il dato più convincente risulta essere proprio il volto nuovo di James Bond; il biondo Daniel Craig (contestatissimo all'inizio dai fans) spiazza tutti con un James Bond (alla conquista dei suoi due "00") decisamente differente dalle interpretazioni dei suoi predecessori; un fisico sorpredente, due occhi di ghiaccio, atteggiamenti da killer, rude, spietato, anticonvenzionale, diffidente di tutto e tutti. Ma "Casino Royale" è il 21esimo della serie, debutto assoluto per Daniel Craig nei panni di Bond, e di Eva Green come Bond-Girl; il film si basa sul primo romanzo di Ian Fleming, padre dell'elegante ma pericoloso agente segreto britannico. 
Casino Royale introduce James Bond prima che gli fosse concessa la licenza di uccidere. Anche così Bond è comunque pericoloso e durante il film, il suo stato viene elevato a "00". Dal canto suo il regista Martin Campbell ("Goldeneye"), è riuscito con successo a svecchiare la serie, rendendola meno patinata e ridondante, svilendo il celebre "aplomb" di Bond, per farlo competere con agenti segreti più tosti, ruvidi e "sporchi" (gente come Jason Bourne/Matt Damon o xXx/Vin Diesel). Infine un enorme contributo "made in italy" sia per alcune scene ambientate a Venezia, sia per la partecipazione straordinaria del grandissimo Giarcarlo Giannini, di Caterina Murino e del romano Claudio Santamaria (Carlos) che sfida Bond a colpi di arti marziali in uno degli inseguimenti più spettacolari del film. Un personaggio quello di 007, quasi "rinato", più attento all'attualità (fra terrorismo e intrighi finanziari), che inaugura il 2007 scintillando al box office! L'unica speranza ( e qui lo dico da "bondiano doc") è che a partire dal prossimo episodio (titolo provvisorio "Risico" sempre con Daniel Craig) non finisca per appiattirsi sugli stereotipi della serie (com'è successo nelle ultime avventure di Pierce Brosnan, piene zeppe di effetti speciali di situazioni prevedibili e ripetitive). Speriamo.
Giudizio   (legenda).  
di Battista Passiatore, 10 gennaio 2007.

CARS (di John Lasseter, 2006)

La Pixar che ormai da anni sforna capolavori dell'animazione, questa volta si è concentrata sul mondo delle automobili e il risultato è quantomeno apprezzabile.
"Cars" narra di un’auto da corsa: Saetta McQueen che in viaggio verso la California rimane bloccata a Radiator Springs. Qui conoscerà l'umiltà, l'amicizia e l'amore. Venendo da film davvero straordinari quali "Mosters and co.", "Alla ricerca di Nemo", "Toy Story", "Gli Incredibili", tutti: critici e pubblico, si aspettavano molto dalla nuova pellicola pixar; e in parte le aspettative sono state deluse; ma solo in parte. Infatti al film di certo non mancano sprazzi di umorismo e di divertimento ed altri di belle emozioni.
In "Cars" infatti le auto riescono a prendere vita ed ad avere una propria personalità e le vicende inoltre a non apparire troppo scontate cosa che non sempre riesce nei film di animazione.
Giudizio  (legenda).
di Salvatore Scarpato.  15 Gennaio 2007.

BOBBY (di Emilio Estevez, 2006)

"DOLCE RICOSTRUZIONE DEL SOGNO SPEZZATO" - E’ una delle pagine nere della storia d’America. Gli Stati Uniti avevano già perso JFK e Martin Luther King. Il sogno si spezzò quando Robert F.Kennedy venne ucciso il 6 giugno 1968 all’hotel Ambassador di Los Angeles. Emilio Estevez, alla sua prima grande regia (è anche attore nel film), affronta con coraggio l’assassinio del senatore in cui gli States riponevano le proprie speranze per un futuro migliore. Per il regista newyorchese, figlio di Martin Sheen (che recita nel film), si trattava di un’impresa dura. L’ha affrontata con coraggio e la sua carrellata di ventidue vite da immortalare all’hotel della tragedia si può considerare riuscita in pieno. Non è una biografia, è uno spaccato delle ultime ore della vita di Robert Kennedy (ma per tutto il film sarà per tutti Bobby) visto attraverso gli uomini, le donne, gli eventi, le speranze e le problematiche dell’Ambassador. L’intreccio delle ventidue storie è complesso, Estevez ha però dalla sua un cast all-star che non si vedeva da un pezzo, e che aiuta lo spettatore identificando volti noti e stranoti nei molti personaggi del film. Così ci troviamo di fronte a un Anthony Hopkins portiere in pensione che non riesce a lasciare il suo posto all’hotel. Sarà proprio lui a ricevere il senatore all’Ambassador. Per non parlare di Sharon Stone in versione parrucchiera tenace-moglie tradita, una dimostrazione di forza che mancava da un po’... Demi Moore cantante in crisi di alcool, Helen Hunt aristocratica più attenta alle scarpe che al marito, Laurence Fishburne cuoco saggio alle prese con una multietnica cucina (spicca tra gli altri Freddy Rodriguez), William Macy direttore dell’albergo con una relazione extraconiugale e ancora Cristian Slater al suo ennesimo ruolo da cattivo, ma sotto sotto non lo è totalmente, Joshua Jackson maturato e perfetto politico, Elijah Wood post-Frodo che sposa una discreta Lindsay Lohan per non andare in Vietnam, Heather Graham centralinista amante del capo e come detto la famiglia Estevez: Emilio è il marito frustrato della Moore e Martin Sheen è sposato con la sofisticata Hunt.
Un puzzle difficile che riesce a risultare semplice e avvincente. Ci accompagna per tutto il film la (grande) figura di Robert Kennedy, le sue parole, i suoi discorsi, il suo volto. Non è una biografia, è un omaggio. Un omaggio multirazziale ad un sogno americano spezzato. Difficile dividere il fascino documentaristico-storico di Kennedy dall’opera di Estevez, il regista ci ha lavorato per anni e quello che ci lascia è un’opera eccellente.
Quello che Bobby rappresentava per tutti coloro che credevano in lui, rimane nel sorriso del giovane Dwayne, futuro segretario dei trasporti, all’uscita del suo primo incontro con il senatore Kennedy. Splendida la sequenza con in sottofondo Sound of Silence di Simon & Garfunkel. Emozionante!
Giudizio (legenda).  
di Matteo Bursi, 26 gennaio 2007.

BLOOD DIAMOND (di Edward Zwick, 2006)

Africa. Un villaggio di povera gente, capanne di paglia, terreno sabbioso, uomini con vecchi vestiti e sandali. S., padre di famiglia, suo figlio D., che ogni mattina percorre 2 chilometri e mezzo per recarsi a scuola, sua moglie e altre due figlie più piccole. Una vita povera, poco serena a causa della costante minaccia della guerriglie, ma piena, basata sulla reciproca fiducia. 
Africa. Il RUF, un gruppo che lotta contro il governo per il potere : rapisce, indottrina, arma e droga bambini anche molto piccoli per aumentare la propria forza armata. Si fa credere ai piccoli che loro facciano parte di qualcosa di importante,di giusto, di sicuro per il loro futuro e quello dell'intera nazione. Si fa credere loro che basti imbracciare un' arma per ottenere ciò che
desiderano. 
Africa. H., un uomo bianco di 31 anni nato in Sud Africa e sempre vissuto in Africa, contrabbanda diamanti e armi, freddo, opportunista, conosce tutti i trucchi del mestiere e si destreggia bene in qualunque situazione precaria perchè lui conosce quel popolo, conosce quelle strade. Paesaggi bellissimi, incontaminati, verdi e rigogliosi, totalmente discordanti dai luoghi dove vive l'uomo, dai centri urbanizzati, dunque, e dai campi profughi, sterminate distese di baracche. In questi luoghi la vita umana non vale più nulla, c'è sporco, puzza di cadaveri, macerie, per gli scontri armati che sono appena finiti ma che probabilmente si ripresenteranno il giorno dopo. Tutti vogliono i diamanti, il governo, il RUF, H., tutti vogliono spremere la terra rossa africana. In mezzo al pandemonio la gente comunque vive, comunque spera, nonostante quella costante presenza di morte e paura che avvolge, in modo intermittente, le vite di tutti.
Le vite di H. e S. ad un certo punto si incontrano, a causa di un grosso diamante da 10 carati che può realizzare i loro più grandi desideri : per Hitch quello di lasciare per sempre l' Africa, per S. quello di rivedere finalmente la sua famiglia, dalla quale ha dovuto separarsi : infatti durante una improvvisa retata del RUF al villaggio egli viene portato via e costretto a lavorare nelle miniere di diamanti. Per realizzare i loro desideri dovranno lavorare insieme, Solemon sa dove ha nascosto quel diamante trovato per caso durante il suo breve periodo di schiavitù, H. è il solo che può permettergli di raggiungere vivo la miniera. 
Un film avvincente, con ampio uso dell'azione, ma troppo americano, urla le cose quando potrebbero anche solo essere sussurrate, la sofferenza viene mostrata in modo talmente enfatizzato quasi come a offenderla, essa è e deve rimanere un sentimento interiore, soggettivo, dipingerla a quel modo, renderla uguale per tutti, la svilisce infinitamente.
Il regista inoltre utilizza dei cliché tipici del film americano, i quali portano la pellicola a dei crolli
intermittenti di stile : S., uomo semplice, a volte quasi stupido, ma buono, puro, totalmente estraneo a qualsiasi forma di malvagità o azione per proprio tornaconto; la presenza femminile che redime H., che gli fa ricordare di avere un cuore. Lo stesso ruolo, ma interpretato da un uomo, avrebbe alleggerito il film dei soliti passaggi melensi e commoventi.
Credo infine che non dovrebbe essere un film a dover sensibilizzare la gente, ma al contrario, dovremmo essere noi a voler conoscere quello che ci sta intorno. Ma al giorno d'oggi non è così, molte persone non si informano, molte persone devono essere stupite per interessarsi a qualcosa lontano dal loro piccolo nucleo esistenziale. Questo film avrà sicuramente portato molti alla riflessione : ciò che si vive e ciò che si ha è prezioso, tremendamente prezioso e noi troppo spesso diamo per scontato di poterci svegliare vivi ogni giorno.
Giudizio  (legenda).  
di Claudia Costanza, 1 febbraio 2007.

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Edward Zwick, un misconosciuto cineasta che dopo il buon successo de "L'ultimo Samurai" con Tom Cruise, ci aveva abituati ai tipici blockbuster hollywoodiani che fanno manbassa al box-office. Tra lo stupore generale invece, il regista (e anche produttore) Zwick torna sugli schermi con "Blood Diamond", un blockbuster questo sì , capace però di unire lo spettacolo-entertainment con un bell'esempio di cinema di denuncia, impegnato socialmente-politicamente e se vogliamo eticamente, senza strafare con le intenzioni, anzi riuscendo a mantenere un certo raffinato equilibrio tra i due elementi (e non è una cosa banale e scontata; uno degli ultimi film di questa sostanza è stato il futurista "I figli degli uomini" di Alfonso Cuàron). I rischi sono sempre quelli di banalizzare e volgarizzare le tematiche da una parte e di incespicare in lunghi e noiosi "fuori onda" fatti di “nomi” e “fatti”, che rischiano di mandare a monte l'intento principale del film e cioè gli incassi al bottheghino. Blood Diamon da questo punto di vista riesce laddove un film ricco di presupposti come "Syriana" aveva fallito: abbassa, stempera con il dramma la sua potenziale carica di denuncia per incontrare una fetta di pubblico più ampia. Il film riesce a reggere gli oltre 140 minuti su cui è spalmata, non concedendo nulla o quasi al contrappunto sentimentale della vicenda (i due belli non si baciano nemmeno), e concentrandosi quasi totalmente sull'azione, sui combattimenti. Ne escono così due ore di battaglie, rappresentate al limite del realismo soft che le major consentono, e che pongono con discreta forza anzitutto il tema delle numerose guerre civili che dilaniano il continente africano, e in secondo luogo l'incresciosa situazione dell'importazione illegale di diamanti in Europa, il cui flusso di denaro va ad alimentare violenze e (come da titolo) sangue. Un'altra nota positiva infine, riguarda l'ottima forma dell'intero cast; a partire dal sempre più bravo Leonardo Di Caprio che dimostra la sua piena maturità artistica (come d'altronde aveva già fatto in parte in "The Departed"), a Djimon Hounsou ottimo comprimario (già spalla di Russel Crowe ne "Il gladiatore") per finire con una concreta e ritrovata Jennifer Connelly. Un lodevole film di ricerca e di denuncia, al quale il protagonista Di Caprio ha partecipato attivamente anche sul fronte politico-sociale.
Giudizio ½  (legenda).  
di Battista Passiatore, 4 febbraio 2007.

BLACK DHALIA (di Brian De Palma, 2006)

"IL RITORNO A META' DI DE PALMA" - Il 2006 è stato l’ anno che ha segnato il ritorno di Woody Allen (Match Point) e di Pedro Almodovar (Volver): pensavo fosse anche quello di De Palma. Infatti “The black dahlia”, tratto dall’ omonimo romanzo di James Ellroy, non convince e non riesce mai a decollare del tutto. La storia, vera, descritta come l‘evento più scottante dopo la bomba atomica, si basa sul ritrovamento del corpo mutilato e tagliato perfettamente a metà di Elizabeth Short, un‘aspirante attrice, nella Hollywood anni ’40, ricostruita dallo scenografo premio oscar Dante Ferretti. L’ indagine viene affidata a due poliziotti con un passato da pugili, mr.Ice Bucky (Josh Hartnett) e mr.Fire Lee (Aaron Eckhart), che verranno pian paino risucchiati in un turbine di violenza, nuovi delitti e scomode verità. E mentre Lee, ossessionato sempre più dall’ indagine che non sembra avere vie d’ uscita, mette in pericolo la sua relazione con Kay (una Scarlett Johansson un po’ in ombra), Bucky cade nella morsa della ricca e controversa Madeleine (Hilary Swank), che sembra misteriosamente implicata nell’ omicidio.
De palma manipola con maestria sogni, paure e ossessioni dell‘antica Hollywood, ma la sua non è una regia sempre lineare. Infatti dirige con mano sicura le sequenze secondarie del film, come gli splendidi filmati in bianco e nero di un’eccezionale Black Dahlia, impersonata dalla sorpresa Mia Kirshner, mentre l‘intreccio della storia spesso si sviluppa in modo poco chiaro e comprensibile. Per quanto riguarda le interpretazioni, quelle femminili battono di gran lunga quelle maschili. Una su tutte, come già detto, spicca quella di Mia Kirshner, la vera protagonista, perfetta con quegli occhioni languidi nei panni di una insoddisfatta e malinconica Dahlia Nera.

Federica Serfilippi, 25 ottobre 2006.     

BLACK BOOK (di Paul Verhoeven, 2006)

Al nome di Paul Verhoeven, la prima parola che viene in mente è provocazione. Sin dai suoi primi film olandesi infatti, così come per le pellicole filmate ad Hollywood, questo regista si è caratterizzato per la sua ambiguità e il suo anticonformismo, risultando spesso, agli occhi di una certa critica vecchio stampo, irritante, volgare, erotomane, sadico, nazista.
Con Black Book Verhoeven torna in Olanda per firmare un episodio poco noto della Resistenza, durante la Seconda Guerra Mondiale: lo scandalo del film sta nel mostrare nazisti non soltanto come cattivi da fumetto, ma anche capaci di amare ed essere generosi con i propri nemici; in una parola, “buoni”. E se a questo aggiungiamo che la Resistenza si macchia di crimini analoghi ai feroci tedeschi, et voila, ecco a voi le immancabili discussioni. Ma al di là delle polemiche fini a se stesse, allo spettatore Verhoeven consegna un thriller spionistico di buona fattura, dal solido impianto narrativo e con una protagonista eccellente, Carice Van Houten, una scoperta per il pubblico internazionale, nella parte della spia infiltrata tra i tedeschi. Dall’apprendistato hollywoodiano il regista acquisisce la capacità di tenere inchiodata l’attenzione del pubblico, principalmente attraverso un montaggio mozzafiato: qua e là si intravedono cedimenti spettacolari che inevitabilmente fanno pendere il film sul versante della superficialità, a scapito della compattezza e dell’analisi storica. Ma è altresì vero che il cinema di Verhoeven sa guardare (letteralmente) più in basso degli altri, affrancando il film dalla sensazione di deja vu: quanti avrebbero osato girare una scena come quella della decolorazione dei peli pubici? Verhoeven si sporca le mani con materiali bassi per puntare in alto, e a confermarlo potremmo citare certi picchi splatter del finale, o la controversa – e a tratti insostenibile – sequenza delle umiliazioni che la protagonista deve subire dai suoi compagni a guerra finita, credendola una doppiogiochista. Un pugno allo stomaco che non lascia indifferenti, che è poi la vera mission del cinema verhoeviano, essere memorabile, esistere, nella sua incombente e viscerale drammatizzazione.
Giudizio½  (legenda).  
di Giulio Ragni, 9 marzo 2007.

Concorso fotografico SCATTI IN RETE - Le 30 opere finaliste

Domenica 19 Aprile 2009 - Il concorso fotografico online "Scatti in Rete" si avvia alla fase finale. La giuria del premio, dopo un lungo lavoro di selezione delle centinaia di opere presentate in concorso, annuncia l'elenco delle trenta fotografie finaliste. Da queste trenta saranno scelte le prime tre opere classificate. Al vincitore, tra l'altro, spetterà il privilegio di una mostra personale in una sezione apposita creata da gransito.com

001a - 
Prime luci sul mare - Biagio Giordano (Savona).
017c - 
Ti sento... - Gina Pricope (Palermo).
018a - 
Le ombre dell'ultimo sole - Sara Tonelli (Fano, PU).
022c - 
Figli della luna - Marco Zeppetella (Roma).
025a - 
Rossofiore - Emiliano Cribari (Rignano sull'Arno, FI).
033a -
 Liberi di volare - Ilaria Lanzeri (Torre Annunziata, NA).
045a - 
Border - Floriana D'Ammora (Castellammare di Stabia, NA).
052a - 
Singola goccia di rugiada - Riccardo Botta (Genova).
060c - 
Tramonto sul fiume Chobe - Anna Maria Pagetti (Roma).
073c - 
Prima o poi arriverà - Alessandro Bonvini (Reggio Emilia).
079a - 
Vuoti d'acqua - Debora Fabbri (Licciana Nardi, MS).
081a - 
La potenza - Emanuele Bonifazi (Orte, VT).
097b - 
La natura e la sua stella - Eugenio Grosso (Milano).
098b - 
Rainbow - Giulia Grisorio (Bollate, MI).
103a - 
Dragonfly in the city - Claudia Costanza (Castelguelfo, BO).
108c - 
Rapide a Kukkola (Lapponia) - Cristina Mantisi (Savona).
113a - 
Goodbye - Lisa Bernardini (Anzio, ROMA).
122b - 
Cavalletta disturbata - Marco Bissoli (Cerea, VR).
129a - 
Sottosopra - Claudia Pescatori (ROMA).
145c - 
Nel bel mezzo delle canne di bambù... - Silvia Pinna (Settimo Torinese, TO).
186a - 
Due - Paolo Fani (Scandicci, FI).
210a - 
Composizione d'autunno - Riccardo Ratini (Terni).
229b - 
Il mago del calcio - Gianluca Frappampina (Bra, CN).
230c - 
Cantone attitude - Marco Paccagnella (Treviglio, BG).
231b - 
Landa - Sigfrido Corradi (Roveré Veronese, VR).
255c - 
Nel cuore dell'autunno - Francesco Olivieri (Castelfranco Emilia, MO).
268a - 
Giulia. Nulla si crea, nulla si distrugge - Giovanna Bortoli (Carpi, MO).
280b - 
Sottobosco - Roberto Caccioppoli (Napoli).
286a - 
Oche selvatiche - Andrea Marcuzzo (Bibione, VE).
311b - 
Scaramucce in natura - Georgia Faraò (Bologna).

BABEL (di Alejandro Gonzàles Iñàrritu, 2006)

Un dramma dopo l’altro, questo è “Babel” l’ultimo lavoro del regista messicano di “Amores perros” e “21 grammi - il peso dell’anima”: Alejandro Gonzàles Iñàrritu. Il titolo riprende la leggenda della torre di Babele, la torre di cui si narra nella Bibbia. Secondo questa leggenda, gli uomini, un tempo, comunicavano per mezzo di una sola lingua, e di comune accordo cominciarono a costruire una torre per raggiungere il cielo. Dio però infuriatosi per l’oltraggio recato dagli umani, decise, per punizione, di creare confusione fra le genti facendo sì che parlassero lingue diverse. In tal modo impedì che la costruzione della torre fosse portata a termine. Il titolo è dovuto all’intenzione del regista di raccontare la difficoltà che hanno gli uomini nel comunicare fra loro. La trama è divisa in tre vicende, collocate in 3 continenti diversi ma legate fra loro. Una parte è ambientata in Marocco dove due coniugi: Richard e Susan (B. Pitt e C. Blanchett) sono andati in vacanza per fuggire dalla quotidianità. 
Ben presto la loro permanenza in Africa diventerà tragedia a causa di un’ incidente che coinvolgerà proprio Susan. Un’ altra parte è ambientata in America, dove una governante messicana si occupa di due bambini americani, ignorati dai genitori; infine la terza parte ha come set il Giappone dove protagonista è una adolescente sordo-muta e disturbata dopo la morte della madre. “Babel” è un film che non lascia speranza, è un film che racconta un mondo tragico all’inverosimile ed è un film estremamente ricattatorio nei confronti dello spettatore. Uno dei difetti più marcati della pellicola sono i personaggi (elemento fondamentale in un film corale come questo). Essi infatti risultano finti e soprattutto senza anima, così come senza anima è l’intera opera.  Troppo comodo è trattare argomenti tragici come suicidio, incidenti, morti premature, nel tentativo di regalare facili emozioni. Anzi, il film a causa della sua superficialità è arido e freddo per quasi tutti i 135’ di pellicola. 
Mal riuscito è anche il tentativo di creare una storia ad incastri, in quanto i legami fra le varie vicende sono abbastanza irrilevanti nell’analisi complessiva del film. Non eccezionali, anzi al limite della mediocrità le interpretazioni; alquanto ridondante la regia, seppur ben curata e visivamente affascinante. E’ probabilmente arrivato per Iñàrritu il momento di dare una svolta al proprio cinema, un cinema troppo gratuitamente tragico, tanto che a lungo andare è diventato fasullo e difficilmente sostenibile.

Salvatore Scarpato, 30 ottobre 2006.     

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"INCOMPIUTO" - La tragicità efficace dell'ultimo 21grammi non è ripresa in questo Babel. Riprendo un vecchio adagio calcistico per riassumere in poche parole il nuovo film di Alejandro Gonzales Iñàrritu. "Buona l'idea, non altrettanto la conclusione." Sia ben chiaro che adattando il motto sportivo al lungometraggio in questione non si tratta di conclusione ma bensì di realizzazione nel suo insieme. Tre storie a tre capi diversi del pianeta concatenate tra loro: premessa interessante ma le attese non vengono rispettate e per qualcosa come sessanta minuti (dei 135 totali) il film non si fa guardare. La violenza sembra esibita all'interno di una tragedia un po' troppo gratuita. La psicologia dei personaggi è inesorabilmente debole, soprattutto per i quattro protagonisti di spicco delle vicende (Pitt, Blanchett, Bernal e Kikuchi). Sembrano ad un primo distratto sguardo tutti caratteri forti e curati ma lasciano pian piano trasparire una, fastidiosissima, aura di superficialità. La non riuscita del film si completa con i futili e trascurabili legami che le vicende presentano tra loro. Se la paradossalità della concatenazione di tre vicende disperse nel globo si risolve con la parabola del fucile fatale alla turista americana regalato da un ricco giapponese (con qualche scheletro nell'armadio e una sessualmente squilibrata figlia sordomuta) ad un povero marocchino che poi lo rivenderà sulle sue montagne per qualche spicciolo e una capra, il film, inevitabilmente, crolla su se stesso.

Matteo Bursi, 14 dicembre 2006.     

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I film a tesi hanno sempre dei grossi limiti di partenza, insiti nella loro stessa natura dimostrativa: nel caso di un regista come Alejandro Iñarritu, questi limiti possono trasformarsi in un vero e proprio handicap, che ne inficia qualsivoglia giudizio critico. Per i suoi detrattori, queste storie incrociate sul filo di tesi piuttosto ardite, che siano il peso dell’anima di 21 Grammi o l’eventualità che una tragedia che accada in una parte del mondo possa avere ripercussioni verso luoghi e persone lontanissime come in questo Babel, risultano alquanto indigeste. Ma se andiamo oltre la superficie programmatica delle sceneggiature di Arriaga – che è la vera testa pensante di queste storie – riscontriamo più di un punto a favore del regista messicano: innanzitutto la direzione degli attori, davvero ottima, che siano non professionisti o star come Gael Garcia Bernal (scoperto proprio da Iñarritu in Amores Perros) e Brad Pitt; circa poi i temi di fondo del film, essi valgono molto di più di ciò che emerge dalla superficie. Ciò che resta di Babel, più della tesi di base, è la profonda incomunicabilità e la solitudine che ca-ratterizza i personaggi, data non tanto dal parlare lingue diverse, ma linguaggi diversi. La coppia in crisi, il rapporto padre-figlia, lo scontro con l’autorità (sia al confine messicano che nel deserto marocchino) sono tutti esempi di codici linguistici in contrasto fra loro: parlano la stessa lingua, ma non sanno comunicare. I personaggi sono mossi da motivazioni più profonde rispetto a quanto potrebbe sembrare ad un primo sguardo, e l’accusa di aridità emotiva è francamente discutibile, poiché il regista evita il patetismo, ma non l’emozione, che traspare nonostante il compiacimento stilistico, disinnescando qualsiasi forma di ricatto nei confronti dello spettatore, a costo di eccedere nella sottrazione e nella rinuncia a climax melodrammatici. 
Come padronanza di racconto Iñarritu migliora ad ogni film, il suo stile fatto di salti temporali in Babel è molto più controllato e al servizio della storia rispetto alle pellicole precedenti, e certi pezzi di bravura sono da antologia (il lavoro sul sonoro nell’episodio giapponese –il migliore – per rac-contare il disagio della protagonista, il vagheggiare nel deserto della tata messicana, la telefonata tra Brad Pitt e i figli). E i più scettici si riguardino la scena della ritrovata intimità della coppia Pitt/Blanchett, con lui che aiuta la moglie ferita a fare pipì: in mano ad un altro la sequenza sarebbe potuta entrare negli annali del trash e del ridicolo involontario.
Anche se le tesi di partenza sono irritanti, pretestuose e a volte insostenibili, teniamocelo stretto Iñarritu, perché i talenti vanno sempre incoraggiati, e chissà che al prossimo film (magari senza Arriaga) questo regista non metta tutti d’accordo.

Giulio Ragni, 15 dicembre 2006. 

AS YOU LIKE IT (di Kenneth Branagh, 2006)

Kenneth Branagh, uno dei maggiori cantori cinematografici di Shakespeare e sempre convinto dell'attualità del Bardo, adatta affronta la prova con la consueta professionalità ma cerca di essere originale a tutti i costi, decidendo di abbandonare l'Inghilterra per ambientare il tutto nel Giappone di fine Ottocento. Poteva essere un'idea (la vita come teatro e rappresentazione), supportata del resto dal notevole lavoro svolto sui costumi e sulle scenografie (che sembrano imitare lo spazio scenico), senonché resta purtroppo la sensazione di trovarsi di fronte all'ennesimo prodotto pensato e realizzato per arruffianarsi l'MTV generation: assoldata come protagonista una delle attrici più in del momento, ovvero Bryce Dallas Howard (che pure dimostra la sua bravura), e fatto diventare di colore l'innamorato Orlando, Branagh fa piombare i personaggi in mezzo ad attacchi ninja comandati da un duca-samurai che sembra Darth Vader, combattimenti di sumo, giardini zen e geishe (per non parlare della reazione che suscita il sentire una contadina giapponese riconoscere la grandezza di Marlowe). Il problema è che dopo mezz'ora, tra movimenti circolari fin troppo facili e inutili esercizi calligrafici, Branagh ci riporta, senza volerlo e dimenticando la contestualizzazione iniziale, nella foresta inglese, limitandosi a ricordarci, con qualche fugace inquadratura, che siamo in Giappone. L'impostazione è tipicamente teatrale, la vicenda si lascia tranquillamente guardare fino all'apprezzabile epilogo metacinematografico, ma il ritmo rimane basso e il film non decolla, venendo fortunatamente salvato dagli interventi di indispensabili personaggi di contorno, come il solitario filosofo Jaques (un tormentato Kevin Kline) e l'esilarante giullare di corte (un Alfred Molina che è un misto di incontinenza verbale e slapstick comedy).

Paolo Nardi, 16 novembre 2006.

A SCANNER DARKLY (di Richard Linklater, 2006)

La sostanza D brucia il cervello delle persone, potente acido che produce, nel tempo, la dissociazione tra i due emisferi del cervello : con la "morte" (altro nome dato all'acido, in effetti mortale) non si possono avere delle vie di mezzo, o sei dipendente o non l'hai mai provata. 
In un era post - moderna in cui il 20% della popolazione americana è dipendente dalla sostanza D il governo ee i suoi collaboratori spediscono in missione degli infiltrati per scoprire i traffici illegali maggiori e porre fine ad una calamità che devasta le menti  in modo irreversibile. 
Bob Arctor è uno di questi infiltrati ma improvvisamente ed in modo inaspettato si scopre dipendente egli stesso dal terribile acido senza mai averla provata ; non si da una spiegazione nemmeno sul perchè, dall'oggi al domani, la sua vita sia così rovinosamente crollata, la separazione dalla moglie, le allucinazioni...gli stessi suoi colleghi che segretamente indagano su di lui...
Viene data una visione esauriente ed impressionante di come vivano e vedano il mondo le persone che assumo sostanze allucinogene, il film ci mostra da dentro tutte le sensazioni ed i pensieri, i discorsi senza senso, gli scatti di gioia e di ira. Nello stesso tempo ci mostra un mondo corrotto al quale delle persone non importa più nulla, è solo il dollaro a contare ormari e la gente è carne da macello. 
La cosa più particolare della pellicola però è che il film è recitato da attori che però ci vengono mostrati in versione animata, dei disegni che si muovono freneticamente per tutto il film, l'unica figura lenta, pacata, rimane Bob, che fino all'ultimo momento consercerà quel minimo di lucidità che forse gli permetterà di salvare se stesso e tutto il mondo...
Alla fine del film una lista di nomi di persone morte o con danni irreparabili al cervello o al pancreas, ricordate perchè decedute a causa di sostanze come la sostanza D che, pur inventata, rispecchia molto da vicino le droghe moderne cui sono assuefatte migliaia di persone nel mondo.
Giudizio  (legenda).
di 
Claudia Costanza.  21 Settembre 2007.

APOCALYPTO (di Mel Gibson, 2006)

"LOTTA PER LA SOPRAVVIVENZA" - La storia in sé non ci è nuova:un popolo tranquillo (i Maya) un giorno viene invaso e decimato da un popolo nemico. I sopravvissuti alla lotta sono fatti prigionieri e portati,dopo un tragitto tortuoso ed umiliante,al cospetto del capo villaggio. Qui le donne sono vendute come schiave e agli uomini è mozzata la testa. La profezia annunciata da una bambina malata, incontrata lungo il viaggio, inizia però ad avverarsi. La prima manifestazione è data dall'eclissi di Luna che il sacerdote interpreta come un segno della sazietà di sangue del loro Dio. Così i rimanenti prigionieri hanno la possibilità di tornare liberi,sempre se riusciranno a fuggire nel campo di grano prima che lance,sassi e quant'altro è scagliato contro di loro li uccida. 
Il protagonista,Zampa di Giaguaro,riesce a salvarsi ma da questo momento ha inizio una caccia mozzafiato nella foresta. Egli si salverà grazie all'amore per la sua famiglia(la moglie incinta e il figlio che abilmente aveva nascosto durante l'assedio). Il finale,che vede l'arrivo degli “uomini civilizzati”,gli spagnoli,mette in dubbio ancora una volta il loro destino Come nei precedenti “Braveheart”e “La passione di Cristo”, Mel Gibson non lascia nulla al caso:paesaggi reali(girati in una foresta messicana),attori carismatici(indigeni e messicani senza esperienza cinematografica) e lingua dell'epoca(Yucateco). Personalmente amo la regia di Mel che ancora una volta è riuscito a far nascere in me la voglia di approfondire le mie conoscenze riguardo temi finora solo abbozzati sui libri di scuola. I film di questo straordinario regista rimarranno nella storia perché sono veri e proprio capolavori artistici,dove ciò che conta non sono le parole ma ciò che le immagini suscitano in chi le guarda.
Giudizio   (legenda).  
di Pamela Garbin, 6 gennaio 2007.

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Nella foresta messicana vivono le popolazioni Maya, alcune sono piccole comunità rurali, una di queste ha fondato una città e la sua popolazione è molto numerosa. La comunità civilizzata soffre di terribili carestie e malattie per cui decidono di fare sacrifici umani al loro Dio perchè li salvi da questi eventi funesti. gli uomini offerti in sacrificio sono appartenenti alle piccole comunità rurali tra cui anche quella in cui vive il protagonista, Zampa di Giaguaro, anch'egli fatto prigioniero. Il villaggio in cui egli vive viene dato alle fiamme, il padre viene ucciso, a stento riesce a nascondere la sua compagna col figlio in una grotta, promettendo loro che farà ritorno. Arrivato in città, sta per essere sacrificato al Dio ma, per una serie fortuita di coincidenze, furbizia e coraggio, riesce a scappare ma viene inseguito fino ai confini del suo villaggio, riesce ad annientare tutti gli inseguitori, salva la sua compagna e i due figli (nel frattempo ella ha partorito) e tutto sembra concludersi. Se non che, volgendo lo sguardo alla spiaggia, compaiono delle navi, quelle dei coloni, e Zampa di Giaguaro dice "Meglio andare nella foresta a cercare un nuovo inizio". 
Come TUTTI i film, non importa se Apocalypto sia storicamente attendibile e nemmeno se sia "la solita americanata", non importa se Gibson abbia creduto col cuore in quello che stava facendo o abbia solamente seguito la scia di "the passion". Importa invece se questo film sia passato solo dal cervello o anche dal cuore. Non è un film abbastanza bello da piacere a tutti ma non è certo un brutto film che la critica collettiva possa schiacciare. Prima di andare al cinema ho letto veramente di tutto sull'opera, sia da siti inglesi che italiani, sia da riviste come Ciak e sono giunta in sala cinematografica con addosso una curiosità mostruosa! 
Alla fine mi è piaciuto, e molto. Non lo considero un capolavoro ma le 2.05 ore mi sono passate davvero veloci, mi ha fatto letteralmente rimanere attaccata allo schermo! 
Mi è piaciuto ma ci ho trovato anche parecchia superficialità. E' vero che non conosco la vera storia dei maya, ma voglio augurarmi che non fossero davvero così come li descrive talvolta Gibson. Soprattutto i capi del popolo maya civilizzato vengono delineati dal regista come uomini terribilmente materiali, adorano il loro Dio in modo egoistico, rumoroso, quasi utilizzandolo per ingraziarsi i favori della folla sottostante che vuole unicamente la fine di carestie e malattie. Gibson li descrive anche ingiustificatamente crudeli. certo, io credo che le civiltà antiche abbiano conosciuto molta violenza, ma non penso affatto che ci fosse molto tempo per tutte le cattiverie gratuite e le vendette che appaiono nel film. A volte sembra quasi di scorgere una moderna civiltà travestita e truccata. 
Molto più veri e propriamente umani sono invece i componenti della popolazione di Zampa di Giaguaro, Persone semplici, la parola del cui Dio passa attraverso la bocca degli anziani che per farsi intendere raccontano storie in cui si pone in rilievo l'unione tra essere umano e natura, due entità inscindibili per un popolo che abita le foreste. Quando Zampa di Giaguaro fugge, egli stesso diventa un animale e come nel racconto del Saggio del villaggio, l'aquila gli presta i suoi occhi e altri animali altre doti per poter sopravvivere al feroce inseguimento. Lui ed il suo popolo la sera danzano intorno al fuoco, di giorno cacciano, qualcosa di più tangibile, più attinenete, secondo me, ad una civiltà esistita tanto tempo fa. 
Bellissima e azzeccata l'idea di utilizzare il linguaggio originale, come anche attori autoctoni, geniale perchè, per quanti effetti speciali ci siano, per quanto le musiche siano apocalittiche (non trovo termine migliore) e la regia decisamente moderna, con un pò di immaginazione ci si sente davvero trasportati in un altra epoca. Certo, un pò più di rusticità nei toni non avrebbe guastato di sicuro. 
Apprezzata tantissimo la recitazione, in particolar modo di Zampa di Giaguaro, un guerriero di pochissime parole ma i cui occhi esprimono esattamente quello che sente dentro il suo cuore, la rabbia, la tristezza, la forza interiore che non gli fà mai perdere la speranza, che lo fà sempre stare attento a quello che gli succede intorno, cercando una via per potersi liberare dall'orrore che gli è piombato addosso. Ed è questa ultima caratteristica, tramandatagli dal padre, questa lucidità nel percepire gli eventi anche nella situazione più spaventosa, alla fine, a salvarlo. E salvando se stesso riesce anche a salvare la sua donna ed i suoi due bambini, dopo avere annientato tutti gli inseguitori, meticolosamente, uno per uno. 
Cosa dire infine della scena che và a concludere il tutto? Sembra quasi che con la frase finale ("è meglio che andiamo nella foresta a cercare un nuovo inizio") Zampa di Giaguaro sappia benissimo cosa siano quegli oggetti che vengono dal mare, chi siano le persone che quegli oggetti trasportano e questo, naturalmente non è possibile. Forse il guerriero era stanco, forse la sua indole gli ha detto di fuggire da ciò che non conosceva? Il film forse avrebbe dovuto fermarsi con la riconciliazione e lasciare allo spettatore la vista delle navi dei coloni ed il pensiero di cosa ciò avrebbe portato nella vita di tutti i Maya, civilizzati o meno, che popolavano quelle terre. 
Giudizio  (legenda).  
di Claudia Costanza, 25 gennaio 2007.

ANPLAGGHED AL CINEMA (di Rinaldo Gaspari, 2006)

Aldo Giovanni e Giacomo mettono insieme cento minuti del loro più recente spettacolo teatrale e lo propongono al pubblico cinematografico nel sua forma (quasi) originale. Montando gli sketch ripresi nelle esibizioni modenesi, il trio prova a raccontare una serie di piccole storie ambientate nella periferia di una grande metropoli lombarda. In realtà, se questo film fosse una commedia 'normale' bisognerebbe scrivere che è "divertente solo a tratti". Almeno un paio di sketch, infatti, sono davvero riuscitissimi, ma quello che manca è il ritmo generale e il respiro cinematografico. Perché sì, è vero che cinema e teatro sono entrambi spettacoli di massa e quindi sembrerebbe avere un senso destinare questo prodotto al grande schermo invece che a quello piccolo, ma a teatro gli attori sono lì insieme agli spettatori, e la loro presenza aiuta molto a trascinare il pubblico anche nei momenti meno riusciti. Comunque per chi ama il trio comico non si illuda, non c'è una storia "tratta da", è lo spettacolo così come è stato rappresentato a teatro selezionando alcune scene in modo da ridurne la durata da due ore a circa cento minuti, con tanto di palcoscenico e di pubblico. Il teatro al cinema insomma, ripreso con telecamere ad alta definizione, con la regia di Rinaldo Gaspari, e registrato col sistema Dolby digitale per offrire una qualità di immagini e suoni in grado di rendere al meglio le atmosfere delle rappresentazioni dal vivo.
di Battista Passiatore, 30 novembre 2006.

ANGEL-A (di Luc Besson, 2005)

Un film in cui il dialogo è talmente grande nella sua semplicità che si potrebbe fare a meno di tutto il resto, ma Luc Besson ha messo in scena anche il resto : due soli attori che riempiono lo spazio ed il tempo ; Parigi, città elogiata e meravigliosa, immensa nella sua spazialità, potente nella sua forza, sembra quasi che anch'essa tenti di stabilire un dialogo, soprattuto con Andrè (protagonista maschile, che proprio da uno dei ponti di Parigi cerca di buttarsi) ; Il bianco e nero, ultimo protagonista della pellicola che la riveste di surreale (non si capise bene infatti se ciò che si verifica sia frutto della mente di Andrè o realmente stia accadendo : il bianco e nero fà di tutto un sogno..). 
AngelA è davvero un angelo ? Compare nella vita di Andrè quando tutto sembra essere perduto, al punto di volersi buttare giù da un ponte (comunque poco convinto, poichè egli non è mai convinto di nulla se non di ciò che gli dicno gli altri). 
AngelA è lì di fianco a lui, anche lei sul ponte...AngelA lo salva, parlandogli, solo rivelando ad Andrè il vero se stesso, diverso da quello che gli mostra al mondo, ricco invece di una forza interiore che però, in una intera vita, non è mai stato capace di esprimere e soprattutto pieno di un amore che non ha mai saputo esternare. 
AngelA gli fà capire tutto questo e anche Andrè, a suo modo, salverà lei.  Un film davvero di spessore pur nella sua semplicità, nelle sue frasi sentite e risentite, quelle frasi che vengono così spesso ripetute, nella pellicola come nella nostra vita, perchè pur essendo così facili ed intuitive, solo pochi riescono a metterle in pratica oltre al solo comprenderle e condividerle.
Giudizio  (legenda).  
di 
Claudia Costanza, 10 marzo 2007.

WALLACE & GROMIT E LA MALEDIZIONE DEL CONIGLIO MANNARO (di Steve Box e Nick Park, 2005)

"DOLCESPRESSIVO" - Chiunque sia stato in Gran Bretagna e abbia passato un po' di giorni in una famiglia inglese non può non aver visto almeno una volta i corti di "Wallace&Gromit", veri divi al di la della Manica. E dopo Stati Uniti, Australia ed Olanda arriva in Italia il primo lungometraggio dedicato alla coppia. Un vivace horror per vegetariani, in cui Wallace..l'umano goloso di formaggio..e Gromit... fido ed intelligente cagnolino(il vero genio di casa)sono alle prese con una miriade di teneri e buffi coniglietti talmente ingordi da mangiare tutti gli ortaggi presenti nel pittoresco paese di Tottington e compromettere cosi la fiera dell'ortaggio gigante (molto popolari in Gran Bretagna). Ecco allora entrare in azione la "S.W.A.T antipesto"squadra speciale,formata dai due grandi amici,per la difesa dei vegetali! Realizzato in animazione stop-motion, i pupazzi sembrano quasi reali grazie alla loro grande espressività (se si pensa che il personaggio di Gromit è muto). Un film divertente e simpatico in cui non si può non venir catturati dalla dolcezza e astuzia di Gromit disposto a tutto pur di aiutare il suo amato padrone.
Giudizio  (legenda).
di Federica Bongiovanni. 9 Marzo 2006.