mercoledì 20 maggio 2009

FLAGS OF OUR FATHERS (di Clint Eastwood, 2006)

Tre nomi, tre garanzie di qualità. Su questo, pochi dubbi. Clint Eastwood ritorna alla regia dopo due capolavori come "Mystic River" e "Million Dollar Baby"; Paul Haggis torna alla sceneggiatura dopo aver diretto il bellissimo "Crash" e dopo aver sceneggiato alla grandissima Million Dollar Baby; Steven Spielberg produce ancora dopo aver diretto il bellissimo "Munich" . Cosa può uscirne fuori se non un grande film? Si tratta di "Flags of our Fathers", uno dei film più attesi della nuova stagione. Tratto dal romanzo Flags of Our Fathers: Heroes of Iwo Jima di James Bradley e Ron Powers, il film narra la storia dei sei soldati americani che sollevarono la bandiera americana a Iwo Jima, quando la Seconda Guerra Mondiale stava per concludersi, dal punto di vista di Bradley, il figlio di uno dei sei soldati. Nel cast tutti attori giovanissimi: Ryan Phillippe (attore in Crash di Haggis, tra l'altro), Jesse Bradford , Adam Beach, Paul Walker e Jamie Bell. Una delle battaglie più cruente della seconda guerra mondiale ricordata dal mondo per quell'immagine che vede sei soldati issare un pennone con la bandiera a stelle e strisce. Era solo il quinto giorno di una battaglia che sarebbe durata più di un mese quando un gruppo di soldati venne incaricato di issare quella bandiera. 
Non un segno di vittoria, e nemmeno una foto originale, solo un piccolo passo verso la conquista dell'isola, ma che agli occhi di chi stava combattendo la guerra da casa propria, con l'arma della propaganda e del denaro, divenne un regalo della provvidenza. Non ha importanza, non l'ha avuta ai tempi, almeno, che l'immagine non fosse stata scattata a battaglia ormai vinta; che per evitare che la bandiera originale finisse nelle mani di un politico in visita sull'isola un comandante avesse deciso di fare sostituire il drappo originale, da alcuni soldati, poi ritratti nella foto e venduti al mondo come eroi. Nessuna importanza, per i burattinai, che i nomi dei soldati ritratti nella foto non fossero quelli esatti e che i tre sopravvissuti, interpretati da Ryan Philippe, Jesse Bradford e Adam Beach, avessero più che una remora nell'ingannare l'America e la memoria dei loro commilitoni. 'Flags of our Fathers' è tutto questo, raccontato con lo stile di Eastwood, e con un ricorso quasi maniacale al salto temporale, il passato, il presente e il futuro dei tre protagonisti si alterna sullo schermo e dà origine a un film che non lesina certo scene forti o di battaglia, ma che vive soprattutto raccontando le vite dei tre soldati, il percorso che li ha portati alla guerra e quello successivo al ritorno in patria. Che sia un altro Oscar per il coraggioso Clint Eastwood? Ce lo auguriamo a questo punto...
Giudizio   (legenda).  
Battista Passiatore, 30 novembre 2006.

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Dopo due anni dallo splendido “Million Dollar Baby”, Clint Eastwood torna alla regia di un film. La pellicola, ancora una volta sceneggiata da Paul Haggis, si basa sulla famosa foto scattata nel febbraio 1945 che ritraeva 6 soldati americani nell’atto di piantare la bandiera degli Stati Uniti d’America sulla cima del monte Suribachi, sfondo della sanguinosa battaglia di Iwo Jima durante la seconda guerra mondiale. Lo spunto del regista californiano è di sicuro molto interessante: così come allora anche oggi durante una guerra, il primo obiettivo delle due parti è non solo prevalere sull’avversario, ma anche semplicemente far crederlo di riuscirci. Quella foto infatti scattata solo nei primi giorni di quella che sarebbe stata una battaglia cruenta venne sfruttata dagli americani come base di una propaganda mirata a finanziare la campagna militare americana.
La storia di tre degli uomini che installarono la celebre bandiera (o presunti tali) costituisce il fulcro principale del film. Essi, loro malgrado, diventeranno eroi in patria, nonostante sappiano di aver combattuto semplicemente per la propria sopravvivenza. Ed è proprio la contraddizione che vivono i personaggi uno dei temi più interessanti sviluppati da Eastwood. I tre, infatti, non solo devono sopportare un profondo turbamento interiore sentendosi non all’altezza dell’importanza conferitagli, ma sono anche costretti a fare da manifesto alla campagna militare e ad effettuare veri e propri spettacoli celebrativi. Una nota particolare la merita la colonna sonora, questa infatti composta dallo stesso Eastwood (così come avveniva anche in “Million Dollar Baby”), riesce ad essere nella sua estrema semplicità, molto efficace nel suo intento di accompagnare le immagini senza sovrastarle, difetto riscontrabile in parecchi film. Piuttosto convincenti le recitazioni, seppur senza alcuno spicco; eccellente invece la regia anche se la prima parte, costituita dalla battaglia fra i soldati americani e quelli giapponesi sull’isola di Iwo Jima, non riesce ad essere emotivamente coinvolgente quanto ad esempio l’inizio di “Salvate il soldato Ryan” di Spielberg (tra i produttori di “Flags of our fathers”) che ritraeva lo sbarco in Normandia con un realismo assolutamente inavvicinabile. “Flags of our fathers” è un film meritevole e degno di lode, nonostante ciò ci si poteva aspettare qualcosa in più dalla coppia Eastwood-Haggis (vincitori degli ultimi due premi Oscar per i propri film); infatti l’opera non riesce a raggiungere gli altissimi livelli di “Million Dollar Baby” e “Crash”.
Giudizio   (legenda).
Salvatore Scarpato, 13 gennaio 2007.

FASCISTI SU MARTE (di Corrado Guzzanti, 2006)

"UN LUNGO MONOLOGO" - L'ambizioso film di Corrado Guzzanti parte da un'idea brillante: la colonizzazione durante l'impero fascista del Pianeta Rosso da parte di un manipolo di squinternati e "italici" soldati capitanati dal gerarca Barbagli (Guzzanti stesso). I primi venti minuti sono divertenti e presentano delle trovate interessanti ironizzando in maniera quasi spietata sull'ideologia fascista. Il problema è che Guzzanti ha voluto trarre da questa esile trama un lungometraggio e così le avventure dei nostri eroi diventano ben presto ripetitive col film che si trasforma sempre di più in un monologo di Guzzanti, indubbiamente grande mattatore, ma certo incapace di poter reggere da solo un intero film. Alcune trovate, come il mezzobusto di Mussolini cui Barbagli si rivolge in cerca di consiglio, oppure la Madonna del Manganello sono esilaranti, ma da sole non bastano a reggere quasi due ore di film. Da stendere invece un velo pietoso sull'intermezzo della amazzoni aliene. Il pregio principale è quello di proporre un importante operazione filologica sui motti fascisti, sdrammatizzando quelle assurdità proprie dell'ideologia Mussoliniana. Però una domanda sorge spontanea: se ne sentiva poi questo gran bisogno?

Luca Balsamo, 2 dicembre 2006.   

ERAGON (di Stefen Fangmeier, 2006)

Un po’ Dragonheart, un po’ Il signore degli Anelli, un po’ Harry Potter il nuovo fantasy natalizio adattato da un romanzo già collaudato a sufficienza negli ultimi due anni. Peccato che qui non ci siano la gigioneria di Dennis Quaid, né i costumi di Ngila Dickson, né la sceneggiatura di Peter Jackson, ma solo un giovane attore che di promettente ha solo la faccia (un po’ più espressiva, diciamolo, di Daniel Radcliffe – Harry Potter), un costumista che veste gli abitanti delle città degli elfi come pittoreschi contadini tibetani e uno sceneggiatore che passa da battute come “Tu sei fatta per la guerra” alle poetiche rime “In cielo per la gloria, morte o la vittoria!”. Nemmeno gli effetti digitali salvano un film che del libro ha a malapena il titolo (per quanto nemmeno il libro sia un capolavoro), perché, come già ci ha insegnato il flop di Tristano e Isotta, non bastano sangue e battaglie per fare cinema. Il regista sembra non aver imparato niente dal suo lavoro alla Industrial Light & Magic di Lucas, né (purtroppo) dai precedenti più o meno validi, e probabilmente non ha messo a fuoco i punti focali della narrazione, che procede secondo un ritmo che più lineare non si può e che lascia a tratti più divertiti che emozionati: la storia ormai rifritta (e l’autore del libro, Cristopher Paolini, lo sa bene) del piccolo eroe pronto a guidare le forze del Bene contro il Male, stavolta rappresentato – sorpresa – da un re crudele (un povero John Malkovich), si snoda anche con troppa tranquillità, alternando scene di battaglia goffamente girate a dialoghi poveri e prevedibili. Eragon (l’esordiente dal bel faccino Ed Speelers) si ritrova per caso sul groppone il drago femmina Saphira (orrendamente doppiato da Ilaria d’Amico), e deve assolvere l’ingrato compito di guidare un esercito di ribelli male in arnese (i tibetani, ricordate?) dopo aver affrontato i proverbiali dieci minuti di addestramento con l’ex cavaliere dei draghi Brom (un malinconico Jeremy Irons che, se proprio voleva fare un fantasy, se ne meritava uno un po’ più valido). Non manca neppure la donzella da salvare: la principessa degli elfi (ma il film non lo dice) Arya, interpretata da Sienna Guillory (vestita da un costumista che la fa sembrare più Pocahontas che un elfo), presa prigioniera dal perfido spettro Durza (Robert Carlyle), che la tiene segregata fra le mura quadrate di una fortezza non meglio identificata. Segue la battaglia finale, che per com’è girata sembra una rissa da taverna con contorno di duello fra draghi e guarigione miracolosa della buona (e poco credibile) Saphira. 
La Century Fox ha comprato i diritti per l’intera trilogia di Paolini. Che sia una minaccia? 
Giudizio  (legenda).  
di Chiara Palladino, 1 gennaio 2007.

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Fantasy, fantasy e ancora fantasy ... forse è il momento di darsi decisamente una calmata. Dopo i trionfi planetari della trilogia "Il signore degli anelli", di "Harry Potter" e del recente "Le cronache di Narnia" valeva proprio la pena portare sullo schermo il primo libro del giovanissimo (classe 1983) scrittore americano Christopher Paolini ?...Forse no. La storia racconta di Eragon, un giovane e intraprendente ragazzo che trova un uovo di drago appartenente al perfido Re di Algaesia, Galbatorix, e scopre di essere l'ultimo cavaliere di draghi esistente. Assieme col maestro Brom, cominceranno la lunga lotta per la maledizione del regno. Il solito immaginario fatto di di cavalieri, magie e draghi mistici, che si prepara alla definitiva conquista del mondo. Un'avventura fantastica diretta dall'esordiente Stefen Fangmeier (curatore di effetti speciali) che è, ovviamente, anche un romanzo di formazione, per un adattamento attesissimo dai milioni di fan mondiali, ma che probabilmente li lascerà delusi per la mancanza di vera avventura e magia, non riuscendo ad appassionare come vorrebbe e potrebbe. Tutte cose già sentite, di solito in meglio. Altalenanti le prove degli attori: inespressivo il protagonista Speelers, stoico Jeremy Irons nel recitare dialoghi non proprio scespiriani, un po' sprecati John Malkovich e Sienna Guillory (che ha fascino degno di ben altro). Per il resto solita incursione fantasy (poco emozionante) sul grande schermo; il film in se per sè non è brutto, anzi è un bel vedere agli occhi (anche per le sinuose scenografie) ma il problema è semmai il coinvolgimento emotivo dello spettatore che rimane quanto meno deluso da una trasposizione così asfittica e piatta.
Giudizio  (legenda).  
di Battista Passiatore, 10 gennaio 2007.

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E' sempre un dispiacere notare come la gente tenda a porre le cose sullo stesso piano non in base a un preciso metro di giudizio ma a seconda del genere di appartenenza: siccome Eragon è un fantasy allora bisogna dire che è come Il Signore degli Anelli e le Cronache di Narnia. Bugia. Nel caso di Eragon ci troviamo di fronte a un mediocre filmetto dalla pochezza imbarazzante, con personaggi che già definire "bidimensionali" sarebbe un eufemismo, e uno sviluppo narrativo quasi inesistente. Non c'è nulla della raffinata erudizione filologica di Tolkien o dell'allegorismo cristologico di Lewis, e secoli sembrano passati dall'evoluzione di una filmografia fantasy finalmente "matura": il lavoro tratto dal giovane Christopher Paolini è stato preparato in fretta e furia per dare un nuovo film agli affamati di fantasy facile. La storia è classica: il solito ragazzo di padre ignoto, sfortunato ma bravo, trova un oggetto magico strapotente, in questo caso un uovo dal quale uscirà un drago. Avrà la casa assalita da misteriosi mostri mutanti, ma lui troverà aiuto in una persona saggia (Jeremy Irons, che ormai è egli stesso garanzia di fiasco, del resto come non ricordare il suo contributo del terrificante Dungeons & Dragons?), che non è quel che sembra ma un cavaliere dei draghi decaduto. Il giovane quindi comincerà un viaggio che lo condurrà a scoprire il suo destino e a salvare una principessa elfica (elfica fino a un certo punto, visto che nel finale del film la conciano da squaw pellerossa con tanto di piuma in testa e accompagnata da tre barbuti Re Magi) tenuta prigioniera da un pericoloso negromante. Jeremy Irons ricicla il suo personaggio dagli occhi languidi ma volitivi, ben accompagnato dal mefistofelico John Malkovich che appare per circa un minuto in tutto il film, insomma il tempo necessario per pagarsi le bollette fino al prossimo kolossal miliardario. Spiace vedere due grandi attori ridotti da anni al minimo sindacale per facili guadagni, ma spiace ancora di più constatare la sorprendente superficialità del tutto, l'approssimazione della produzione, i buchi narrativi e le incongruenze, le frasi a effetto (che vorrebbero essere memorabili), una battaglia finale piena di scadenti effetti speciali, attaccata là con lo sputo. La regia è inesistente, si limita a muovere gli attori e a riprendere bei panorami, che alla fine sono la cosa che si lascia guardare con più soddisfazione. Non si riesce a tifare realmente né per i buoni né per i cattivi, tanto insulsi appaiono i vari personaggi, e si prova davvero fastidio quando si vede che tra gli eroi "buoni" del rifugio segreto ci siano anche un nero e sua figlia, a cui viene offerta anche una battuta giusto per essere politicamente corretti. Non esito a preferire di gran lunga film infantili ma godibili come Dragonheart o ridicolaggini conclamate come il Re Scorpione che almeno sono volutamente parodiche. Il drago? Realizzato bene, ma in Italia drammaticamente doppiato da Ilaria D'Amico (presentatrice della domenica calcistica su Sky). Insomma, se questo è il primo capitolo di una trilogia, si può sperare possano solo migliorare. 
Giudizio  (legenda).  
di Paolo Nardi, 15 gennaio 2007.

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"NON CI RESTA CHE PIANGERE" - Dalla penna dello scrittore americano Cristopher Paolini nasce il primo capitolo della trilogia dell’Eredità dedicata alle avventure del diciassettenne Eragon e della sua draghessa Saphira.
In un mondo fantastico in cui l’ordine dei cavalieri dei draghi ormai non esiste più,l’ultima speranza è affidata al giovane cacciatore(interpretato dall’emergente Ed Speelers,dal viso acqua e sapone ma abbastanza credibile nel ruolo) che,aiutato dal saggio Brom(un triste Jeremy Irons a cui è riservato un breve ma importante ruolo),cercherà di proteggere se stesso e Saphira,cui è legato moralmente e fisicamente,dalla perfidia di Durza.
La storia si sviluppa senza troppe complicazioni,è molto semplice forse perché adatta anche e soprattutto ad un pubblico giovane.tanto che si ha la sensazione che molti dialoghi siano trattati frettolosamente e banalmente solo con l’intento di giungere alle scene più emozionanti e ricche d’azione. Lo schermo però è praticamente tutto riservato al protagonista e al suo drago perché i personaggi di contorno alla trama sono mostrati raramente,persino il malvagio Durza, i cui sotterfugi non sono ben chiari, o l’elfo Arya, a cui è palesemente riservata la parte di bella di turno. 
Mi auguro che i prossimi capitoli possano portare delucidazioni riguardo alla funzionalità di molti personaggi di passaggio,come ad esempio quello interpretato da John Malkovich,un sorta di secondo cattivone. Molte le similarità,copiate malissimo,da pellicole come Harry Potter,Dragonheart o il Signore degli Anelli,anche se temo che Cristopher Paolini non raggiungerà mai la popolarità di Tolkien. Come se non bastasse,una nota negativa va anche al doppiaggio italiano della draghessa Saphira:non si trovava di meglio visto che i doppiatori italiani sono tra i più bravi al mondo?  
Giudizio  (legenda).  
di Pamela Garbin, 1 dicembre 2007.

DOPO IL MATRIMONIO (di Susanne Bier, 2006)

INTIMO - Niente a che fare con vecchi stereotipi nordici. Questo film, della eccellente regista danese Susanne Bier, ha ben poco di freddo e si caratterizza per una buona dose di tensione presente nei rapporti tra i protagonisti. Dopo il matrimonio si apre e si chiude in India, là dove un uomo danese si è rifugiato dall'odiato ricco mondo per scegliere di aiutare con tutto sé stesso i poverissimi bambini di Bombay. Ma Jacob dovrà tornare a Copenaghen allettato da una ricca offerta di beneficenza fatta da un miliardario danese (Jørgen).
Dietro a questa strabiliante offerta di beneficenza verso i bambini indiani, si nascondono in realtà segreti inconfessati, una figlia che non conosce il proprio padre, un uomo che non vuol far sapere della sua malattia e una donna che a sua insaputa si troverà in mezzo ai due uomini che ha amato: suo marito e il padre di sua figlia. 
Susanne Bier punta molto sui dettagli; gli occhi si ritrovano lungo tutte le due ore di pellicola. Occhi di uomini, occhi di donne e persino occhi di cervi imbalsamati. Un’ossessione che scorre via leggera, non risulta affatto ridondante ed è ottimamente inserita nell’evolversi dell’intreccio. 
Non mancano neppure colpi di scena in questo film, del quale non si possono non apprezzare i colori (sia in India che in Danimarca, negli esterni come negli interni) e gli interpreti, soprattutto i due veri protagonisti della pellicola di Susanne Bier: Mads Mikkelsen (il tormentato e diviso Jacob) e Rolf Lassgård (il ricco, quasi alcolizzato, ma…in fondo generoso Jørgen). L’inizio è lieve e appassionato, proseguendo si fa più complesso, difficoltoso e intimo. 
Tutto nasce dopo il matrimonio…
Giudizio   (legenda).  
di Matteo Bursi, 16 gennaio 2007.

DIARIO DI UNO SCANDALO (di Richard Eyre, 2006)

Diciamolo subito: Diario di uno scandalo poteva essere uno dei migliori film di questa stagione cinematografica, che pure vanta notevoli titoli. Aveva tutti i numeri giusti: due attrici straordinarie, una storia coinvolgente e originale, personaggi torbidi e ben tratteggiati, un regista che aveva già dimostrato la sua bravura in film come Stage beauty. 
Non è stato un fallimento completo, anzi. Ma di certo Diario di uno scandalo avrebbe potuto essere un capolavoro, e il signor Eyre si è giocato questa possibilità: assoldando un compositore come Philip Glass (Identità violate) che non ha saputo fare il suo lavoro, prima di tutto, e che ci ha ricordato come una colonna sonora sia fondamentale per un film. Alzi la mano chi, guardando Diario di uno scandalo, non ha pensato neanche una volta che per musicare quelle sottili atmosfere emotive non ci voleva un genio come Howard Shore.
E bisogna dire che nemmeno la regia è stata all’altezza. Incapace di seguire bene le interpretazioni, quelle davvero straordinarie, di Dench e Blanchett, Eyre non raggiunge i vertici di bravura di Stage beauty, e il perché è un mistero. Forse la storia non gli piaceva, non gli calzava bene. Ma è strano, visto che, dati i precedenti, sembra proprio adatta a lui. Un’anziana professoressa che sviluppa un attaccamento ossessivo nei confronti della collega più giovane, e spaventata dalla solitudine al punto da ricattare la donna per ottenere da lei attenzione. Non mancava niente, nemmeno la pedofilia. Eppure una regia che avrebbe potuto essere migliore e una sceneggiatura non mediocre, ma pur sempre abbastanza banale, rendono Diario di uno scandalo una prestazione inferiore a quello che avrebbe potuto essere. 
Tuttavia, come ho già detto, non è stato un fallimento totale. Perché i personaggi e i temi trattati erano troppo belli, troppo interessanti per rendere brutto il film. La professoressa Barbara (Dench, da brivido) incarna alla perfezione la solitudine del nostro tempo e il pericolo (reale) della pazzia a cui essa può costringere ciascuno di noi. E il personaggio straordinario di Sheba (Blanchett, perfetta nel ruolo) pone al centro della nostra riflessione temi bollenti come il decadimento della famiglia e la depressione, nonché la fragilità dell’individuo, che davvero conduce ad azioni impensabili. Meritatamente candidate entrambe le attrici per gli oscar 2007, buone le prestazioni degli altri attori (Bill Nighy in testa) e ottimo il finale che riscatta quasi in pieno i limiti della regia e della colonna sonora, e rende comunque Diario di uno scandalo un film da vedere.
Giudizio (legenda).  
di Chiara Palladino, 13 marzo 2007.

CUORI (di Alain Resnais, 2006).

"LA NEVE CADE TENUE SUI CUORI" - La neve accompagna lo spettatore lungo tutto il nuovo film di Alain Resnais. Sei persone si vengono a trovare sole. L'occhio indiscreto dell'autore diHiroshima mon amour viaggia all'interno dei cuori e delle situazioni di questi sei personaggi protagonisti. Tutto il film è come un prolungato zoom all'interno dei sentimenti di quei tre uomini e di quelle tre donne. Non c'è una grossa evoluzione dall'inizio del lungometraggio al termine, è uno spaccato delle sei esistenze all'interno di una Parigi perennemente baciata dalla neve.
Ogni cambio di situazione è sottolineata da dissolvenze segnate dalla neve che cade tenue sopra i personaggi. I loro cuori, veri protagonisti di quest'opera francese, non sono freddi ma la solitudine dei sei si manifesta nell'incapacità di proporsi al meglio, causa fraintendimenti, incomprensioni, difficoltà, al mondo esterno. Su tutte spicca l'incompleta essenza di Gaelle, giovane ragazza parigina che colleziona sfortunati appuntamenti al buio, sui quali puntava molto per raggiungere una felicità compromessa. Il rifugio domestico di Gaelle e del fratello Thierry risulta il vero centro di questa incompleta felicità dei sei cuori francesi raccontati da Resnais. La fotografia ottimamente eseguita sottolinea le grosse performance degli attori (Arditi, Dussolier e Azèma su tutti) tra le quali convince anche l'intensa interpretazione oltralpe di Laura Morante. La neve cade tenue ed incessante sui cuori della Parigi contemporanea.
Giudizio½   (legenda).  
di Matteo Bursi, 3 gennaio 2007.

COMMEDIASEXI (di Alessandro D'Alatri, 2006).

Oltre ai consueti "panettoni" natalizi della coppia (scoppiata) Boldi-De Sica, quest'anno la novità è rappresentata dal "cinepandoro" (termine voluto dal regista per distinzione) firmato Alessandro D'Alatri. Dopo i notevoli successi in compagnia de l'attore-scrittore Fabio Volo ("Casomai" e "La Febbre"), il regista con "Commediasexi", ripropone il suo genere cioè la commedia popolare che, per certi versi richiama l'antica commedia all'italiana degli anni '60, infarcita di attuali tematiche sociali e politiche proposte all'interno del contenitore televisivo; non a caso i suoi 2 protagonisti provengono dal piccolo schermo (Paolo Bonolis ed Elena Santarelli). Accanto a loro tanti grandi attori, a cominciare da Sergio Rubini, Rocco Papaleo, Margherita Buy, Michele Placido e Stefania Rocca. Sullo sfondo di una Roma caotica, capitale della politica e dello spettacolo si intrecciano le storie di un onorevole, della sua consolidata famiglia e della sua giovane amante alle prese con il mondo dello show-biz; a rompere gli equilibri sarà la figura del tranquillo autista personale dell'onorevole.....C'è da dire che la vera sopresa del film, peraltro godibile e divertente, che sicuramente darà del filo da torcere ai due diretti avversari (Boldi e De Sica), è il protagonista Paolo Bonolis; alla sua prima volta sul Grande schermo si conferma un bravo caratterista, certo richiama molto la recitazione cinica e romanesca del grande Alberto Sordi, ma sa mettere in atto alcune doti espressive molto originali. D'Alatri sfrutta al meglio le sue capacità registiche distinguendosi subito per eleganza, raffinetezza e confenziona una brillante commedia, specchio riflettente dell'attuale società italiana, da offrire e proporre agli amici e parenti sulla tavola natalizia.
di Battista Passiatore, 19 dicembre 2006.   

domenica 19 aprile 2009

CASINO ROYALE (di Martin Campbell, 2006)

L'agente segreto più famoso al mondo con la licenza di uccidere, torna sul Grande schermo, con una storia che ci riporta alle origini della Saga di spionaggio più famosa nel mondo del cinema "Casino Royale". Ma cerchiamo di riordinare il tutto: il James Bond degli ultimi tempi, diciamolo era diventato un po' troppo anzianotto per i gusti dei "Bondiani doc"; infatti, aveva, nell'ultimo episodio uscito nel 2002, "La morte può attendere", l'età di un uomo maturo. Pierce Brosnan, all'epoca aveva poco meno che 50 anni. Farlo ringiovanire dimezzandogli quasi l'età ha indicato il desiderio dei produttori di ricercare oggi un pubblico più giovane, stravolgendo completamente il clichè precedenti. E' stata comunque un'ottima idea: ne hanno beneficiato quasi tutti! Dal cast alla sceneggiatura (del premio Oscar Paul Haggis), dalle scenografie agli effetti speciali (qui ulteriormente ridotti) ai famosi gadget costruiti da Q (qui inesistenti). Il dato più convincente risulta essere proprio il volto nuovo di James Bond; il biondo Daniel Craig (contestatissimo all'inizio dai fans) spiazza tutti con un James Bond (alla conquista dei suoi due "00") decisamente differente dalle interpretazioni dei suoi predecessori; un fisico sorpredente, due occhi di ghiaccio, atteggiamenti da killer, rude, spietato, anticonvenzionale, diffidente di tutto e tutti. Ma "Casino Royale" è il 21esimo della serie, debutto assoluto per Daniel Craig nei panni di Bond, e di Eva Green come Bond-Girl; il film si basa sul primo romanzo di Ian Fleming, padre dell'elegante ma pericoloso agente segreto britannico. 
Casino Royale introduce James Bond prima che gli fosse concessa la licenza di uccidere. Anche così Bond è comunque pericoloso e durante il film, il suo stato viene elevato a "00". Dal canto suo il regista Martin Campbell ("Goldeneye"), è riuscito con successo a svecchiare la serie, rendendola meno patinata e ridondante, svilendo il celebre "aplomb" di Bond, per farlo competere con agenti segreti più tosti, ruvidi e "sporchi" (gente come Jason Bourne/Matt Damon o xXx/Vin Diesel). Infine un enorme contributo "made in italy" sia per alcune scene ambientate a Venezia, sia per la partecipazione straordinaria del grandissimo Giarcarlo Giannini, di Caterina Murino e del romano Claudio Santamaria (Carlos) che sfida Bond a colpi di arti marziali in uno degli inseguimenti più spettacolari del film. Un personaggio quello di 007, quasi "rinato", più attento all'attualità (fra terrorismo e intrighi finanziari), che inaugura il 2007 scintillando al box office! L'unica speranza ( e qui lo dico da "bondiano doc") è che a partire dal prossimo episodio (titolo provvisorio "Risico" sempre con Daniel Craig) non finisca per appiattirsi sugli stereotipi della serie (com'è successo nelle ultime avventure di Pierce Brosnan, piene zeppe di effetti speciali di situazioni prevedibili e ripetitive). Speriamo.
Giudizio   (legenda).  
di Battista Passiatore, 10 gennaio 2007.

CARS (di John Lasseter, 2006)

La Pixar che ormai da anni sforna capolavori dell'animazione, questa volta si è concentrata sul mondo delle automobili e il risultato è quantomeno apprezzabile.
"Cars" narra di un’auto da corsa: Saetta McQueen che in viaggio verso la California rimane bloccata a Radiator Springs. Qui conoscerà l'umiltà, l'amicizia e l'amore. Venendo da film davvero straordinari quali "Mosters and co.", "Alla ricerca di Nemo", "Toy Story", "Gli Incredibili", tutti: critici e pubblico, si aspettavano molto dalla nuova pellicola pixar; e in parte le aspettative sono state deluse; ma solo in parte. Infatti al film di certo non mancano sprazzi di umorismo e di divertimento ed altri di belle emozioni.
In "Cars" infatti le auto riescono a prendere vita ed ad avere una propria personalità e le vicende inoltre a non apparire troppo scontate cosa che non sempre riesce nei film di animazione.
Giudizio  (legenda).
di Salvatore Scarpato.  15 Gennaio 2007.

BOBBY (di Emilio Estevez, 2006)

"DOLCE RICOSTRUZIONE DEL SOGNO SPEZZATO" - E’ una delle pagine nere della storia d’America. Gli Stati Uniti avevano già perso JFK e Martin Luther King. Il sogno si spezzò quando Robert F.Kennedy venne ucciso il 6 giugno 1968 all’hotel Ambassador di Los Angeles. Emilio Estevez, alla sua prima grande regia (è anche attore nel film), affronta con coraggio l’assassinio del senatore in cui gli States riponevano le proprie speranze per un futuro migliore. Per il regista newyorchese, figlio di Martin Sheen (che recita nel film), si trattava di un’impresa dura. L’ha affrontata con coraggio e la sua carrellata di ventidue vite da immortalare all’hotel della tragedia si può considerare riuscita in pieno. Non è una biografia, è uno spaccato delle ultime ore della vita di Robert Kennedy (ma per tutto il film sarà per tutti Bobby) visto attraverso gli uomini, le donne, gli eventi, le speranze e le problematiche dell’Ambassador. L’intreccio delle ventidue storie è complesso, Estevez ha però dalla sua un cast all-star che non si vedeva da un pezzo, e che aiuta lo spettatore identificando volti noti e stranoti nei molti personaggi del film. Così ci troviamo di fronte a un Anthony Hopkins portiere in pensione che non riesce a lasciare il suo posto all’hotel. Sarà proprio lui a ricevere il senatore all’Ambassador. Per non parlare di Sharon Stone in versione parrucchiera tenace-moglie tradita, una dimostrazione di forza che mancava da un po’... Demi Moore cantante in crisi di alcool, Helen Hunt aristocratica più attenta alle scarpe che al marito, Laurence Fishburne cuoco saggio alle prese con una multietnica cucina (spicca tra gli altri Freddy Rodriguez), William Macy direttore dell’albergo con una relazione extraconiugale e ancora Cristian Slater al suo ennesimo ruolo da cattivo, ma sotto sotto non lo è totalmente, Joshua Jackson maturato e perfetto politico, Elijah Wood post-Frodo che sposa una discreta Lindsay Lohan per non andare in Vietnam, Heather Graham centralinista amante del capo e come detto la famiglia Estevez: Emilio è il marito frustrato della Moore e Martin Sheen è sposato con la sofisticata Hunt.
Un puzzle difficile che riesce a risultare semplice e avvincente. Ci accompagna per tutto il film la (grande) figura di Robert Kennedy, le sue parole, i suoi discorsi, il suo volto. Non è una biografia, è un omaggio. Un omaggio multirazziale ad un sogno americano spezzato. Difficile dividere il fascino documentaristico-storico di Kennedy dall’opera di Estevez, il regista ci ha lavorato per anni e quello che ci lascia è un’opera eccellente.
Quello che Bobby rappresentava per tutti coloro che credevano in lui, rimane nel sorriso del giovane Dwayne, futuro segretario dei trasporti, all’uscita del suo primo incontro con il senatore Kennedy. Splendida la sequenza con in sottofondo Sound of Silence di Simon & Garfunkel. Emozionante!
Giudizio (legenda).  
di Matteo Bursi, 26 gennaio 2007.