mercoledì 25 marzo 2009

FANTOZZI (di Luciano Salce, 1975)

"IL RAGIONIERE CLOWN" - Pellicola tratta dai romanzi omonimi di Paolo Villaggio; in un clima surreale, comico, farsesco e stereotipato, è narrata la vita quotidiana del ragionier Ugo Fantozzi, sposato con la poco provocante Pina e padre della “primitiva” Mariangela, impiegato qualunque, insidiato dalla volontà di emergere dalla sua condizione fin troppo comune e conquistare il cuore della altezzosa signorina Silvani. Una parodia del consueto, della piccola borghesia italiana dei Settanta, di un micro-mondo che in realtà riflette la maggioranza della gente. La macchietta di Fantozzi diventa un mito per irriverenza, goffaggine, ingenuità e una sfortuna ingombrante simboleggiata dalla celebre nuvoletta da ragioniere. L’intreccio in realtà è un semplice excursus di un uomo comune, ma cela sotto le righe un percorso di cambiamento e di confusione intellettuale: l’impiegatuccio che da servo del potere cercherà di far valere un minimo di ideologia proletaria ma si vedrà costretto a tornare sui propri insipidi passi. Girato con ottimi tempi comici, in una Roma molto poco attuale, il film vince per le infinite gag ormai storiche, come la partita di pallone fra impiegati sotto il nubifragio o la sfida a biliardo con il temutissimo mega-direttore. Un Paolo Villaggio in forma regala per la prima volta agli schermi cinematografici un personaggio collaudato in TV nel 1968 e protagonista dei due best-seller datati 71-72. Un pizzico di surrealismo Zavattiniano, ma anche quella malinconia tipica della commedia agro-dolce all’italiana. Seguito da Il Secondo Tragico Fantozzi del 1976.
Giudizio (legenda). 
di Keivan Karimi. 18 marzo 2008.

BARRY LYNDON (di Stanley Kubrick, 1975)

Lo stile di racconto che Kubrick sceglie di adottare per Barry Lyndon è freddo, nitido, distaccato, per certi versi spietato. Non c'è enfasi nella messa in scena del protagonista Barry, nessun compiacimento drammatico o patetico. La perfezione formale estrema delle inquadrature, della fotografia, della colonna sonora rende il film bello e terribile, quasi impenetrabile: un romanzo di formazione che si risolve, per il suo protagonista, in un tremendo fallimento umano e morale.
Lo sguardo di Kubrick coglie profondamente la bellezza dei luoghi naturali, degli ambienti interni, dei volti (in particolare di Lady Lyndon, personaggio costruito quasi esclusivamente in modo figurativo, e al quale Kubrick dedica splendide inquadrature contemplative), ma si tratta di una bellezza gelida, che i personaggi non sembrano percepire pienamente e con la quale non sanno stabilire un contatto umano ed emotivo positivo.
Così la cura pittorica con cui Kubrick compone le sue inquadrature fa risaltare la crudeltà nascosta dei rapporti, il vuoto morale di Barry; tanta bellezza e tanta eleganza di messa in scena circondano anime vuote, completamente sole ed infelici, incapaci di comunicare con sincerità, deluse e tristi. Nonostante la disperazione di cui è permeata, la storia di Barry è raccontata con notevole gusto narrativo di stampo letterario, segnato a tratti da una certa ironia tragica, soprattutto nel distacco con cui sono messe in scena le sequenze di guerra (la cui insensatezza crudele è resa più acuta dallo sguardo distaccato della macchina da presa) e gli intrighi di corte in cui è coinvolto Barry.
Il gelo pessimistico di Kubrick non gli impedisce comunque di sentire profondamente il dolore dei suoi personaggi; una sensibilità che si avverte soprattutto nei confronti del destino penoso di Lady Lyndon (i cui occhi persi nel vuoto valgono più di mille dialoghi) e del piccolo Bryan.
Lo sguardo di Kubrick sulla società del '700 (e ovviamente su quella di qualunque epoca) è feroce e senza speranza: l'organizzazione sociale, politica, militare è per il regista è per il regista unicamente una macchina disumana produttrice di infelicità e di distorsioni morali, emotive e affettive disastrose. Sembra non esserci per gli uomini alcuna possibilità positiva o di salvezza ma solo un affannarsi verso il raggiungimento di falsi obiettivi (spesso squallidamente materiali) prima di sprofondare, con la morte, in un nulla eterno che cancella qualsiasi azione, sentimento e pensiero. Della vita, di qualsiasi vita, non resta traccia.
Come recita la didascalia finale: "Fu durante il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e disputarono, buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri ora sono tutti uguali".
Giudizio (legenda).
di Valentina Alfonsi.  27 settembre 2007.

AMORE E GUERRA (di Woody Allen, 1975)

La letteratura russa vista da Woody Allen non poteva che dare origine, per sua stessa definizione, a un risultato straniante. Bisognerebbe essere esperti di letterature comparate (e la sottoscritta non lo è) per fare un’analisi approfondita, ma per fortuna non occorre conoscere a menadito l’opera di Dostoevskij per comprenderne la meravigliosa parodia, tutta imperniata della “filosofia” di Allen, che con questo sistema riuscirebbe a renderci estraneo (e “strano”) perfino un Manzoni.
È chiaro che senza una traccia che rimandi a qualcosa di più profondo, in questo caso appunto la letteratura russa, non sarebbe stato possibile per Allen realizzare una così compiuta summa delle sue idee sull’amore e la morte (come recita il titolo originale), i poli fondamentali di qualsiasi riflessione filosofica. E anche su questo si potrebbe fare un’infinita discussione, poiché infiniti sono gli spunti che il film offre a qualsiasi spettatore non sia del tutto analfabeta: la guerra, il potere, l’omicidio, la vita, l’essere umano, il destino, Dio... Amore e guerra è un vero e proprio “film filosofico”: la colonna portante è infatti la straordinaria sceneggiatura, che non solo è, come in ogni commedia, l’elemento fondante e la fonte del divertimento (e si ride davvero), ma presenta allo spettatore la vera idea di fondo, che le immagini da sole non potrebbero rappresentare efficacemente in tutto il suo infinito divenire, nella sua autentica performatività. Filosofia, appunto.
Siamo ai tempi d’oro di Allen, quando ancora il suo “personaggio” veniva portato anche davanti alla macchina da presa. Senza di lui, molti dei suoi film non potrebbero esistere. In questo caso, interpreta un giovane studente russo, Boris Grushenko, follemente innamorato della cugina Sonja (Diane Keaton), altrettanto follemente innamorata di suo fratello, altrettanto follemente innamorato di un’altra donna. Fra esperienze metafisiche (il dialogo coi morti e con la Morte in persona, sogni di vario tipo) e ben più concrete (la guerra, l’involontario atto di coraggio, e una provocante contessa russa) Boris viene trascinato dagli eventi fin dentro le stanze di Napoleone, con l’intento di ucciderlo. Cosa che, inutile dirlo, non gli riesce. E se fin da piccolo lui ha imparato a non fidarsi della Morte, ben presto scoprirà che nemmeno l’Angelo di Dio è poi così attendibile. Ammesso che un Dio ci sia.
L’importante, comunque, è non farne una tragedia. Qualsiasi cosa accada, meglio vederla come un modo molto efficace di ridurre le nostre spese. E se amare è soffrire, morire è decisamente peggio. Meglio accontentarsi della nostra umanità e della nostra ignoranza di quanto c’è “oltre”. Visto che non sappiamo, né mai potremo sapere, se c’è realmente un Dio, tanto vale continuare a vivere. Anche perché, se oggi ci uccidiamo, domani Lui potrebbe concedere un’intervista. 
Giudizio (legenda).
di Chiara Palladino. 11 Novembre 2008.

UN UOMO, UNA CITTA' (di Romolo Guerrieri, 1974)

L’ordinaria quotidianità di un commissario di polizia: potrebbe essere questo il sottotitolo di Un uomo, una città, poliziesco anomalo del panorama italiano perché appunto non si concentra su una sola indagine, ma costruisce un ritratto a tutto tondo di un poliziotto contro criminali di ogni tipo e appartenenza sociale.
I punti di forza del film sono sicuramente la scelta di un attore vero come Enrico Maria Salerno nel ruolo del protagonista e la scelta di un’ambientazione inedita come Torino, con le sue strade e i suoi simboli caratteristici (come la Fiat); rispetto ad altri interpreti aficionados del poliziesco italiano, Salerno riesce a dare sfumature e gigionerie come i grandi detectives americani – le sue “camminate in solitario” sono le sequenze più poetiche di tutta la pellicola – ed è nel film cifra distintiva della condizione sociale del Nord Italia degli anni Settanta, piena di immigrati – lo stesso commissario è un immigrato siciliano – in contrasto con l’opulenza aristocratica dell’elite locale.
La regia funziona bene nei canoni stilistici del genere, ovvero ritmo sostenuto e zoom a raffica, molto meno in certe tirate ideologiche e nelle cadute farsesche – nonostante un ottimo comprimario come il regista Luciano Salce nella parte di un giornalista ubriacone e ficcanaso – che minano il risultato complessivo dell’opera.
Giudizio½ (legenda). 
di Giulio Ragni. 1 dicembre 2008.

SQUADRA VOLANTE (di Stelvio Massi, 1974)

Questa pellicola di Stelvio Massi, regista con un passato da ottimo direttore della fotografia, non si discosta molto dagli altri poliziotteschi dell’epoca, sia nella sceneggiatura che nella filosofia morale ambigua stile Giustiziere della notte, raccontando le vicende del solito poliziotto che rinuncia al distintivo per dare la caccia ad un feroce gangster che le ha ucciso la moglie.
Il film mantiene a distanza di oltre trent’anni un’ottima visibilità, a parte una sequenza in una comune hippie piuttosto datata, con scene d’azione brevi e sussultanti, un buon ritmo complessivo e una scena d’inseguimento (con elicottero!) da manuale; ma a colpire più di tutti è Gastone Moschin nella parte del Marsigliese, freddo criminale con problemi di tisi, a cui il gigionismo dell’interprete conferisce un’aura davillain di razza. Anche per i non appassionati del genere, Squadra Volante resta comunque un titolo consigliabile, se non altro per apprezzare le qualità tecniche della nostra industria quando era all’apice della sua potenza espressiva ed economica.
Tomas Milian nella parte del poliziotto recita con la sua vera voce, ma il nostro plauso va al grande Mario Carotenuto, volto storico della commedia sexy, qui nel ruolo di un brigadiere a fine carriera: una caratterizzazione sottilmente malinconica di grande impatto, peccato la sceneggiatura non valorizzi abbastanza il suo personaggio.
Giudizio (legenda). 
di Giulio Ragni. 13 marzo 2009.

PROFUMO DI DONNA (di Dino Risi, 1974)

Tratto dal romanzo Il buio e il miele di Giovanni Arpino; il capitano in pensione Fausto Consolo, divenuto cieco a causa di un grave incidente, si fa accompagnare dal giovane soldato Giovanni Bertazzi per un viaggio lungo tutta la penisola (da Torino a Napoli), con l'intento d'incontrare il suo vecchio compagno Vincenzo, anch'egli non vedente. E' forse il primo vero dramma d'autore di Dino Risi, che mette in atto una storia di sarcasmo, severità, pietà esistenziale e ingenuità. Gli ambienti che accompagnano il percorso dei due protagonisti rispecchia un'Italia senza indole nè morale, un paese dall'animosità complessa, fatti di luoghi comuni antichi e senza prospettiva. Su tutta la pellicola prevale il costante istrionismo di V.Gassman, possessore di un carattere freddo e violento, come se volesse far pagare al mondo intero la sua disgrazie fisica; ma nasconderà una sensibilità facilmente estraibile nel finale che riecheggia la rassegnazione dell'uomo, in una costante ricaduta verso gli istinti primordiali. Lo sguardo infantile di Giovanni, adolescente che sembra fin troppo fuori luogo, dovrà sopportare i molteplici capricci dell'istintivo capitano, che nel complesso gli insegnerà come godersi la vita e ciò che fare di fronte ad una donna. Ecco, proprio dietro la ricerca della donna, il desiderio sessuale che si attinge col gentil sesso, si nasconde la rassegnazione alla morte, elemento nascosto nella mentalità dei personaggi ma pronto ad esplodere al termine dell'odissea. Il rapporto complesso vedente/non-vedente è il topos principale dell'intreccio, ma l'istinto e l'affetto più recondito scavalcheranno le barriere di visività fra i due caratteri.
La maestria registica di Risi si conferma in un Italia volgare dai colori spenti e poco convinti, ma il più della pellicola lo fa l'immenso Gassman. Nel 1992 a Hollywood fu girato un remake, Scent of a Women con Al Pacino e Chris O'Donnell.
Giudizio (legenda). 
di Keivan Karimi. 14 marzo 2008.

IL PROFUMO DELLA SIGNORA IN NERO (di Francesco Barilli, 1974)

Un film di magia e cannibalismo. Una storia di traumi rimossi e poi riportati a galla, in una Roma notturna popolata di personaggi inquietanti, con una punta di grottesco a condire il tutto.
Se non fosse per alcuni dettagli del decòr palesemente invecchiati, potremmo tranquillamente affermare che il film d’esordio di Francesco Barilli è un’opera senza tempo, che regge benissimo il confronto sia con i classici dell’epoca che con i nuovi cult dello psyco-horror: a metà strada fra il thriller e la fiaba dark, Il Profumo della signora in nero è una pellicola dcisamente insolita nel panorama del cinema di genere italiano; Barilli costruisce un’atmosfera fortemente allucinata, contiene il gore a livelli minimi rispetto al modello argentiano imperante - e forse questo può deludere i fan del genere -  e si inventa uno dei finali più agghiaccianti mai visti in un film italiano.
La regia utilizza trucchi semplici ma efficaci, i movimenti di macchina sono sinuosi e complessi, e riescono a far dimenticare anche qualche buco di sceneggiatura: peccato soltanto la scelta dell’attrice protagonista, un’insipida Mimsy Farmer, che non fa altro che strillare e sgranare gli occhi per tutto il film, l’unica stecca di un ottimo cast di caratteristi e di volti inconsueti, tra cui emerge l’inimitabile Mario Scaccia, più che una spalla, una garanzia di “cultismo” del cinema bis italiano. 
Giudizio (legenda).
di Giulio Ragni.  17 ottobre 2007.

martedì 17 marzo 2009

...ALTRIMENTI CI ARRABBIAMO (di Marcello Fondato, 1974)

"LEGGENDARIO" - Il duo più famoso d’Italia non ha certo bisogno di presentazioni e sarebbe scontato affermare che questo film deve essere presente nella collezione di ogni cinefilo che si rispetti. Teatro delle avventure del burbero Bud Spencer e del donnaiolo Terence Hill questa volta è un luna park minacciato dalla costruzione di un grattacielo,progetto di un infantile e tutt’altro che autoritario boss,consigliato da un nevrotico psicologo tedesco. Causa scatenante di risse e scazzottate è la distruzione della loro”carriola” vinta a pari merito in una corsa automobilistica,che ovviamente il boss non intende ricomprare,anzi escogita mille stratagemmi per eliminare i nostri,ormai completamente arrabbiati. 
Finale scontato ma inevitabile,così come la presenza delle immancabili battute e zuffe dei due leggendari artisti,perché solo così si possono definire. Storiche rimarranno le gag più divertenti come la gara di “birre e salsicce”, la lotta in palestra,la scena del coro e la devastazione del locale del boss in auto,assieme all’ormai indimenticabile colonna sonora degli Oliver Onions.
E’ interessante notare come queste commedie,ridicolizzando temi come la violenza o il predominio del “male” ed esaltando invece l’importanza dell’amicizia,della forza collettiva e della ribellione alle ingiustizie, risultino ancora oggi molto attuali e per questo siano ancora apprezzate,a distanza di trent’anni dal loro successo.
Giudizio (legenda).
di 
Pamela Garbin.  1 dicembre 2007.

giovedì 12 marzo 2009

STORIE SCELLERATE (di Sergio Citti, 1973)

Vergognosamente dimenticato dalla cinefilia ufficiale, un regista come Sergio Citti, scomparso pochi anni fa nell’indifferenza generale, andrebbe assolutamente riscoperto, e un film come questo Storie scellerate rappresenta un ottimo biglietto da visita.Considerato solo come un Pasolini minore – di cui fu collaboratore e assistente alla regia – Citti è in realtà un regista molto più amaro e disincantato dell’autore friuliano, e assai più vicino per umori e prosaicità a quel mondo proletario che affascinava tanto Pasolini, ma da cui era inevitabilmente distante a causa del suo intellettualismo. Raccontate da due attori pasoliniani doc come Ninetto Davoli e Franco Citti, queste Storie scellerate ambientate nella Roma papalina sono un urticante saggio sulla Morte, dove il sesso famelico e abnorme dei protagonisti trova sempre un contrappasso sanguinario e sgradevole – non a caso molti episodi finiscono con la castrazione del protagonista – senza alcun rimando spirituale o religioso: i personaggi cittiani vivono, amano, mangiano, defecano in senso perfettamente laico, a dispetto del beffardo finale che chiude il film.Da riscoprire assieme al più fortunato, commercialmente parlando, Casotto.

Giudizio: ½ (legenda). di Giulio Ragni. 1 dicembre 2008.

MILANO TREMA: LA POLIZIA VUOLE GIUSTIZIA (di Sergio Martino, 1973)

I cosiddetti anni di piombo, in maniera diretta o più sfumata, trovarono nel cinema poliziesco italiano la perfetta incarnazione cinematografica, l’esibizione dell’anima oscura di un paese che vedeva esplodere tensioni sociali rimaste a lungo camuffate. Milano trema: la polizia vuole giustizia, è uno dei tanti prodotti partoriti in quel tempo, con le sale affollate ad ogni spettacolo e il pubblico che andava in estasi ogni qual volta il solito commissario di turno dai metodi spicci tirava fuori la pistola: il film diretto da Sergio Martino, specialista della commedia sexy che al poliziesco italiano ha regalato alcune delle pellicole più politicizzate, con frequenti strizzate d’occhio all’attualità, è soprattutto un buon action movie che ha nelle sue tre sequenze d’inseguimento automobilistico il proprio punto di forza, in cui l’esaltante mix di camera car, campo lungo e ralenti in montaggio alternato non ha nulla da invidiare agli omologhi statunitensi.Per il resto siamo di fronte ad un giallo fantapolitico un po’ diseguale nel ritmo, con protagonista una delle icone più rappresentative del cinema popolare italiano, Luc Merenda, e qualche caduta nella comicità più pecoreccia che rivela la mano del suo autore: ma resta la testimonianza di un malessere sulla questione della sicurezza spaventosamente simile a quella dei giorni nostri.

Giudizio: (legenda). di Giulio Ragni. 20 maggio 2008.

AMARCORD (di Federico Fellini, 1973)

Probabilmente il regalo migliore che Federico Fellini ci ha lasciato è il tentativo “di liberare l’uomo dalla paura della morte”. In primo luogo, è una visione del mondo permeata dal grottesco la chiave per raggiungere lo slancio verso la vita immortale. Nel cinema felliniano ritroviamo sempre un’atmosfera grottesca che riprende l’accezione del termine data da Michael Bachtin: quella di sentire e concepire la vita come una grande festa popolare carnevalesca dove in una sospensione temporale della vita quotidiana sono aboliti i confini tra realtà e immaginazione. Facendo scorrere la filmografia felliliniana queste suggestioni grottesche si rivelano al loro massimo grado nel capolavoro Amarcord, opera che ha fatto vincere al suo autore nel 1973 il quarto Oscar come miglior film straniero. Già nell’indimenticabile sequenza iniziale de Amarcord Fellini restituisce, infatti, allo spettatore una partecipazione infantile e gioiosa al mistero dell’universo. Qui in una visione surreale, potenziata dal cromatismo bianco – azzurro dalla fotografia di Giuseppe Rotunno e dalla freschezza della musica di Nino Rota, la discesa dal cielo delle “manine”, o per meglio dire dei pollini, che annunciano il ritorno della primavera, riporta l’allegria tra gli abitanti di Rimini, città natale dl regista. La sera stessa dell’arrivo delle “manine” Fellini dà il via ai festeggiamenti in una sorta di goliardico rito rinascimentale, a cui partecipano tutti i personaggi del film.Agli antipodi dei più mortuari Fellini – Satyricon (1969) e Il Casanova di Federico Fellini (1976), Amarcord si presenta, quindi, immediatamente come un film visionario e magico, dove tutto si trasforma in festa poiché l’umorismo, la buffoneria e il divertimento hanno sempre il sopravvento sulle immagini di morte che si celano nella pellicola. Questo spirito felliniano di rinascita trova proprio il suo momento culminante nei festeggiamenti, visivamente straordinari, dai tratti circensi nella piazza principale di Rimini con il falò del fantoccio della strega che rappresenta la fine dell’inverno e la nascita della primavera. Di qui l’ambivalenza morte – vita che ne Amarcord fa lievitare poeticamente la realtà del mondo, facendo accedere lo spettatore a un eterno ciclo vitale in grado di dare tutte le volte una nuova linfa all’universo. Tale successione rigenerativa si palesa con grande incisività in altrettante memorabili sequenze della pellicola: il pavone in mezzo alla piazza ricoperta dalla neve; la nebbia autunnale che distorce le ombre, creando figure di giganteschi animali; il passaggio notturno del transatlantico Rex nel mare di Rimini; il gruppo di ragazzini che si mette a ballare davanti alla desolazione invernale del Grand Hotel di Rimini; il funerale dalla madre di Titta a cui fa seguito, in chiusura del film, il matrimonio della Gradisca, mentre dal cielo piovono di nuovo le “manine”, scandendo l’inizio di una nuova primavera. In una fine che si converte in un nuovo inizio nel ciclo continuo delle stagioni risiede, allora, tutta l’universalità del cinema felliliano. In questo senso giungono a proposito le parole dello scrittore Italo Calvino che in Autobiografia di uno spettatore ammette che “il film di cui ci illudevamo d’essere solo spettatori è la storia della nostra vita”.Non dobbiamo, poi, scordare che Amarcord, dopo I Vitelloni, il suo primo successo internazionale datato 1953, è per Fellini è il più vivido viaggio memoriale alla ricerca delle sue radici provinciali (il titolo del film deriva dall’espressione dialettale “A m’arcòrd”, mi ricordo). Difatti, il punto di vista principale de Amarcord è affidato all’alter ego del regista, il giovane rocambolesco adolescente Titta (Bruno Zanin), cresciuto, come Fellini, con un’educazione cattolica e una retorica fascista. È, tuttavia, la dimensione corale quella che prevale nel corso della pellicola, come avviene, del resto, nella maggior parte dei film di Fellini (su tutti ricordiamo il girotondo finale de Otto e mezzo con tutti i personaggi del film che si tengono per mano, uniti verso la stessa meta). E in Amarcord a Fellini, grazie al suo linguaggio di grande immediatezza, bastano pochi tocchi per creare una scanzonata e variegata umanità. Così, rimangono ben impressi nella memoria dello spettatore personaggi come Teo (Ciccio Ingrassia), lo zio matto di Titta, che riesce a essere tenuto a bada solo da una suora nana; i genitori di Titta, Miranda e Aurelio (i bravissimi Pupilla Maggio e Armando Brescia), che con la loro bonaria simpatia rappresentano i valori contadini della terra romagnola; il burbero preside fascista e la rigidissima professoressa di matematica del liceo di Titta, che nella loro chiusura mentale contrastano con l’energica vitalità dello scatenato gruppo degli alunni (tra cui un giovanissimo Alvaro Vitali). Ma, a dire il vero, tutti i personaggi della fervida e originale cinematografia di Fellini meriterebbero di essere ricordati nella loro antologia di volti, ai quali il regista talvolta associa volgarità, talvolta mediocrità, talvolta onirica purezza originaria, talvolta ingenuità, talvolta egoismo e talvolta tenerezza.Un discorso a parte merita, ancora, la sguardo di Fellini verso la figura femminile. La voluttuosa Gradisca (Magali Noёl), la ninfomane “Volpina” (Josiane Tanzilli) e la gigantesca Tabaccaia (Maria Antonietta Belluzzi) de Amarcord seguono le orme de Sylvia (Anita Ekberg) de La Dolce Vita (1960) e della Saraghina (Eddra Gale) e della Carla (Sandra Milo) de Otto e mezzo (1963). Si tratta di donne carnali, animalesche e sensuali che bruciano di vita (“Me la sento già addosso la primavera”, dice, ad esempio, la Gradisca), lontane da qualsivoglia stereotipo romantico di eroine armoniche e statuarie. Si ha, pertanto, l’impressione che le tre donne de Amarcord con le loro forme debordanti e la loro capacità di dare la vita simboleggino per Fellini un ancoraggio all’ordine naturale e generativo del mondo che si afferma, attraverso le tre erotiche protagoniste, come potenza e abbondanza della vita e dei suoi doni.In Amarcord questa forza vitale si esplicita, allo stesso tempo, nella capacità delle classi popolari di liberarsi di ogni schema sociale precostituito attraverso il gioco e lo scherzo. In particolare, c’è una scena dove la serietà della cultura ufficiale viene messa alla berlina da “forze basse”. E’ quella in cui il poeta, rivolto verso la macchina da presa, decanta allo spettatore le bellezze artistiche di Rimini, ma la sua orazione viene interrotta più volte da anonime “puzzette”. Similmente al cinema di Pier Paolo Pisolini, si smarriscono, perciò, distinzioni di classi e gerarchie ufficiali a vantaggio di una contaminazione democratica tra tutti i personaggi della pellicola, messi da Fellini sullo stesso piano senza distinzione di ceto sociale. Per gli animi più sensibili Amarcord resta, dunque, un film affamato di vita che vuole aprirsi al contatto con gli altri esseri umani alla ricerca di un universo utopico. La felicità che ci trasmette incanta ancora oggi.
Giudizio: (legenda).
di Maria Grazia Rossi. 13 marzo 2008.
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Sebbene Fellini abbia scritto che Amarcord è il più autobiografico dei suoi film,un filo unisce l’opera a I vitelloni(1953). Il film è un recupero di immagini nella palude dolciastra dei ricordi d’infanzia,come dice il titolo,che vuol dire “Mi ricordo”. Ma l’autobiografismo non si risolve in nostalgia, ma assume le sfumature di una poesia con emozioni semplici e sentimenti pudici: ad esempio la sequenza della morte e dei funerali di Mirando,madre di Titta. Opera di grande maturità,riesce a fondere perfettamente realtà e fantasia,dolcezza e amarezza. Amarcord è un film tenero,ricco di straordinarie soluzioni visive. L’apparizione di un pavone sotto la neve diventa l’emblema di un mondo senza spazio e senza tempo;lo spettacolo della nebbia a Rimini apre un’ovattata parentesi di oblio;la neve è il ritorno alla fiaba;il volteggiare delle manine di lanugine vegetale scandisce il passaggio degli anni e delle stagioni;il falò delle fogarazze assume un valore rituale. Indimenticabile lo zio di Titta,che,rifugiato su un albero durante una gita in campagna,grida”Voglio una donna” e la Gradisca,archetipo della femminilità e di un goffo erotismo provinciale privo di malizia. Favolosa è la visione del Rex,che sembra uscito da un sogno e scivola nella notte con tutte le luci accese . Ecco la trama: in una cittadina italiana situata sul mare,luogo di vacanze durante il periodo fascista,l’arrivo della primavera è annunciato dal riapparire delle manine,bianchi batuffoli lanuginosi,che il vento solleva nella zona . Aurelio Biondi rimprovera suo figlio Titta,un giovane ragazzo,per il fatto che non lavora e sua moglie Miranda manda Titta dal parroco per confessarsi. Il prete gli chiede se si masturba; la domanda provoca una serie di ricordi erotici e di fantasie,come quelle della Volpina,una prostituta. Dopo un’adunata fascista organizzata per salutare una personalità del governo in visita nella cittadina, la polizia si comporta con una certa brutalità nei confronti di alcuni cittadini,come il socialista Aurelio. Al Grand Hotel, elegante e vistoso, si racconta di un incontro tra un’attraente parrucchiera,la Gradisca, e un principe di passaggio, e di un venditore ambulante invitato a visitare l’harem di un emiro. Quando i Biondi prelevano lo zio Teo dal manicomio a fare un picnic, l’uomo si arrampica su un albero e continua a chiedere una donna,fino a quando una suora nana,venuta dal manicomio,lo persuade a scendere. La gente della città va in barca a cercar di vedere nella nebbia il Rex,una nave. Titta ottiene il permesso di succhiare i capezzoli di una formosa tabaccaia,dopo che diverse volte è riuscito a sollevare il suo corpo immenso. Dopo una nevicata,Mirando Biondi muore in ospedale e viene seppellita dalla famiglia. A primavera,quando le manine tornano ancora una volta nell’aria, Gradisca sposa un carabiniere e un banchetto all’aperto celebra l’avvenimento.Film indimenticabile.
Giudizio: (legenda).
di Sara Memmi. 14 marzo 2008.

mercoledì 11 marzo 2009

PROVACI ANCORA SAM (di Woody Allen, 1972)

Play it again Sam è importante per due motivi: primo, perché è la prima commedia di Woody Allen con Diane Keaton. Secondo, perché pone le basi per tutta la cinematografia romantica moderna. È a Woody Allen che dobbiamo tutti i vari Sam che oggi, con la loro goffaggine e inadeguatezza, ci fanno ancora divertire. E ai quali, sotto sotto, somigliamo.
Sam si muove in un universo tutto suo, che è come un remake di Casablanca in un tempo in cui, forse, essere Bogart non è più possibile. Ma è proprio Bogie a fargli da guida in mezzo ai tranelli amorosi e a suggerirgli la prossima mossa. Compresa quella finale, che sancirà la vittoria non solo dell’amore, ma anche dell’amicizia sincera. Ed è quella sincerità un po’ goffa e quasi involontaria che rende Sam, nonostante le sue scarsissime doti di seduttore, all’altezza del suo mentore ed eroe preferito.
Se c’è una cosa che Woody Allen ha sempre saputo fare, nel suo periodo d’oro, è creare la magia nella commedia senza farla diventare nera. Le commedie di Allen, infatti, diversamente da moltissime che si vedono al cinema, non si dimenticano: un po’ come gli ormai perduti capolavori della Hollywood di un tempo, che ancora oggi si acclamano come dei classici e non a caso. C’è stato un momento, nel cinema, in cui non solo gli attori e i registi dei western e dei film drammatici riuscivano a diventare dei veri artisti: Marylin Monroe, Audrey Hepburn, Frank Sinatra, Gregory Peck, per citarne pochissimi. E non parliamo dell’Italia. Woody Allen ricrea quella magia di un tempo, e racconta le ansie e le problematiche, banalissime nella loro importanza, dell’uomo moderno, senza scivolare nello humour nero (che è roba da inglesi) o nel cattivo gusto (che, in tempi più recenti, è roba da italiani), e riuscendo tuttavia a guadagnarsi un posto nel cuore degli spettatori.
Provaci ancora, Sam ha avuto un grandissimo, intramontabile successo. E’ utile, oltre che innegabilmente spassoso, rivederlo ogni tanto, per tornare a indagare sugli incomprensibili misteri dell’amore e dell’amicizia. Magari dopo aver visto Casablanca.
Giudizio½ (legenda).
di Chiara Palladino. 29 Novembre 2008.

TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SUL SESSO MA NON AVETE MAI OSATO CHIEDERE (di Woody Allen, 1972)

Non è che ai film surreali (e surrealisti) non ci avesse mai pensato nessuno. E qui basterebbe fare i nomi di Dalì e Bunuel, quando il cinema era ancora muto e in bianco e nero. Certo però, quella era roba da intenditori, e magari anche da pazzi in senso letterale. Il gene della commedia demenziale, che oggi è tanto (troppo) diffusa, forse c’era già allora, com’è vero che tutte le avanguardie possiedono in embrione ogni più piccolo elemento della modernità. Allen non fa che mettere in maggior evidenza questo gene, diventando così accorto precursore di un genere (scusate il gioco di parole), senza tuttavia rinunciare al suo peculiare senso del delirio cinematografico.
In una serie di episodi da vero e proprio Decameron (ogni riferimento è puramente casuale) Allen indaga sulle domande più imbarazzanti della sua generazione riguardo il sesso: domande che forse, oggi, ci fanno ridere. Ma non è escluso che facessero ridere anche trent’anni fa. Dal medioevo ai giorni nostri, da questioni di fornicazione con animali e problemi, ben più attuali, di frigidità ed eiaculazione, il film raggiunge il suo apice in pezzi da antologia come l’episodio interpretato da Gene Wilder, medico segretamente innamorato di una pecora volubile, e quello intramontabile in cui gli spermatozoi Tony Randall, Burt Reynolds e Allen si fanno prendere dal panico prima di “decollare”. Con irriverenza, ma anche, in qualche caso, con profonda intuizione – forse sottovalutata in favore dello spirito generale della commedia – Woody Allen parla di sesso come nessuno farà più. Che il film piaccia o no, non dipende dal suo delirio intrinseco: che si prenda o meno sul serio un gigantesco seno a caccia della prossima vittima o un vibratore che prende fuoco, è questione di gusto personale, magari anche di allenamento “cinematografico”. Là dove un Boldi può sembrare assolutamente innocuo alle caste menti degli spettatori italiani, Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso (mai titolo fu più adeguato) rischia di diventare l’insensata poesia di un pazzo perverso.
Magari è vero. Ma sempre di poesia si tratta. 
Giudizio½ (legenda).
di Chiara Palladino. 29 Novembre 2008.

MILANO CALIBRO 9 (di Fernando Di Leo, 1972)

Per capire come mai Fernando Di Leo venne soprannominato il “Don Siegel italiano” basterebbe guardare i primi dieci minuti di Milano calibro 9: i pestaggi e gli atti di violenza si susseguono senza soluzione di continuità, con tagli di montaggio secchi e brutali, in linea con il principio di realismo e di essenzializzazione estrema dei codici estetici e narrativi dei polizieschi d’azione americani, divenuti celebri grazie a registi quali Robert Aldrich, Samuel Fuller e appunto Don Siegel. Ma Di Leo non si fermava al semplice ricalco dei modelli, la concisione e la brutalità della messa in scena riflettevano i bui tempi politici della stagione del terrorismo e della lotta politica, con la città che diventava protagonista assoluta, personaggio aggiunto del film; e Milano, come si evince dal titolo, così protagonista non lo è mai stata.
Tratto da un romanzo di Scerbanenco, Milano calibro 9 racconta di Ugo Piazza, un uomo uscito di galera (un magnifico Gastone Moschin), che si trova sorvegliato sia dalla polizia che dai suoi ex complici di un furto di cui è scomparso il bottino. Sotto le note della splendida colonna sonora di Luis Bacalov e degli Osanna, gli eventi si susseguono in un clima di sospetti e di tensioni sempre crescenti, e l’amarezza di fondo della vicenda presenta affinità e sintonie con il coevo polar francese di Melville, mentre restano scolpite nella memoria le interpretazioni di Mario Adorf e Philippe Leroy, senza tralasciare l’ammaliante e seducente bellezza di Barbara Bouchet.
Visto a posteriori il film mantiene ancora oggi un’ottima visibilità, salvo le connotazioni politiche: il confronto tra il commissario rude e il suo vice idealista appare decisamente datato, frutto di una politicizzazione ancora pregnante nella definizione del genere, che nel poliziottesco degli anni successivi andrà via via scomparendo per lasciar posto a eroi fascistoidi (per alcuni) o difensori della legge soffocati da un’ottusa burocrazia (per altri), sul modello del sempiterno Callaghan incarnato da Clint Eastwood. Ma gli eroi ambigui ed amorali dei film di Di Leo sono di un altro pianeta, anche per la breve ed esaltante produzione del cinema di genere italiano.
Giudizio½ (legenda).
di Giulio Ragni.  13 giugno 2007.

IL PADRINO (di Francis Ford Coppola, 1972)

Dal Best-seller di Mario Puzo, la storia del capomafia più influente di New York subito dopo la seconda guerra mondiale, Don Vito Corleone, della sua Sacra famiglia e del figlio Michael, che finisce per ereditarne il ruolo dopo molte esitazioni. Questa immensa opera di indiscutibile bellezza artistica rifonda l'intero cinema americano; con l'ampiezza del racconto (quasi inedito nel "gangster-movie"), il gigantismo, con il grande mito, Marlon Brando, il padrino con le guance gonfie e la voce impastata che mette al primo posto "la Famiglia"("un uomo che non passa del tempo con la propria famiglia non potrà mai essere un vero uomo") e che non mescola mai gli Affari con le questioni personali. Da sottolineare inoltre, la grinta di un giovane Al Pacino, l'ormai arcinoto tema musicale di Nino Rota, il tutto aggiunto alla culltura mafiosa e agli ambienti e alla tradizione siciliana fanno di questo affresco sociale un capolavoro senza tempo, sin troppo coinvolgente poichè si è indotti a stare dalla parte dei cattivi, a condividerne il punto di vista e a seguirne gli eventi. L'intero progetto ha conosciuto un enorme successo. premiato anche con 3 Oscar, quali Miglior Film, Miglior Attore protagonista e Miglior Sceneggiatura. Il film ha avuto due Sequel (Ottimo "Il Padrino parte II" 1974, apprezzabile "Il Padrino parte III" 1990) e ha inventato un filone cinematografico infinito e stra-imitato.
Giudizio  (legenda).
di Battista Passiatore.  16 Ottobre 2007. 

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E’tratto dal omonimo best seller di Mario Puzo. Hollywood acquistò subito i diritti del film. La scelta degli attori si rivelò difficilissima: nessuno della produzione voleva Marlon Brando, ormai giudicato un attore sorpassato,e lui stesso,sottoponendosi ad un provino anonimo,truccato al punto di non essere riconosciuto,ottenne la scrittura,che gli varrà il secondo Oscar della carriera (il primo lo aveva vinto nel 1954 con “Fronte del porto”).
Affidato a James Caan il ruolo di Sonny,il figlio impulsivo che verrà assassinato,grandissimi problemi sorsero all’assegnazione della parte di Michael,il figlio intellettuale,il bravo ragazzo di college,eroe di guerra e buon cittadino, che al momento opportuno saprà prendere il posto del padre,trasformandosi in perfetto capo di Cosa Nostra. Al Pacino - che poi avrebbe avuto la parte- non lo voleva nessuno:né i produttori,convinti che avesse la faccia troppo buona per il ruolo,né Puzo che disse:”Chiunque può essere Michael,ma non Pacino”. L’unico a credere in Pacino era Francis Ford Coppola,il regista,il quale minacciò di abbandonare il progetto se non fosse stato accontentato:e aveva visto giusto perché si rivelò perfetto.
La ”Lega degli italoamericani”,capeggiata da Frank Sinatra ( a cui si fa riferimento nel personaggio di Jimmy Fontane, un attore messo al bando che rientrerà nel mondo del cinema grazie ai ricatti di Cosa Nostra),impose ai produttori la parola”mafia” e venne accontentata. 
Narrare il film è inutile,e il film quando uscì nelle sale,ottenne un successo strepitoso. Don Vito Corleone, il padrino,reso somigliante,grazie al trucco che appesantiva le guance di Brando,a un padrino autentico, Don Vito Genovese,divenne il personaggio più famoso d’America e del mondo. La sua figura di boss romantico, capace di rifiutare i traffici di droga,in conflitto con i capi delle altre famiglie di New York,mostrò al pubblico un mafioso appartenente a una società “onorata”. Sarà suo figlio Michael,il bravo ragazzo, a vendicarlo quando verrà ferito in un’imboscata. E sarà sempre Michael, preso il posto del padre,a ordinare la spietata eliminazione delle altre famiglie.
”Il padrino”,premiato con l’Oscar quale miglior film,avrà un seguito, “Il padrino-parte seconda”,che verrà realizzato due anni più tardi e vincerà l’Oscar. Altri due Oscar premieranno il regista Francis Ford Coppola e Robert De Niro,nel ruolo del padrino giovane. Nel ruolo di Michael ancora una volta Al Pacino; alla parte Seconda prese anche parte Lee Strasberg.il fondatore dell’Actor’s Studio.
Giudizio  (legenda).
di Sara Memmi.  27 Novembre 2007.

NON SI SEVIZIA UN PAPERINO (di Lucio Fulci, 1972)

Film di culto sin dal titolo, Non si sevizia un paperino è un thriller all’italiana da manuale, dove il regista Lucio Fulci dimostra tutta la propria abilità nel distillare ambiguità e tensione emotiva alla vicenda, senza scadere negli effettacci gore che avrebbero caratterizzato la successiva svolta horror.
Ambientato in un immaginario paese del Mezzogiorno italiano, il film di Fulci tocca temi delicati come la violenza sui bambini, e il regista dimostra tutto il proprio mestiere nel lavorare di sottrazione per evitare di cadere nella trappola della morbosità fine a se stessa, e gioca con lo stilema tipico del genere in salsa italiana, ovvero il continuo moltiplicarsi del possibile assassino, fin quasi a sfiorare l’autoparodia. Ma è anche un film sperimentale questo Non si sevizia un paperinopoiché Fulci sviluppa una trama senza un vero protagonista: le indagini sono affidate a grigi funzionari della polizia che ovviamente brancolano nel buio, e il personaggio del giornalista entra in scena troppo tardi per poter essere considerato davvero un protagonista. 
Nota a margine: il film ebbe all’epoca parecchi problemi di censura per una sequenza di nudo della conturbante Barbara Bouchet con un bambino, anche se Fulci riuscì a dimostrare in tribunale che quando i due personaggi condividevano l’inquadratura, il bambino era in realtà un nano; oggi questa sequenza è stata reintegrata nella sua versione originaleedita in DVD dalla Medusa.
Giudizio (legenda).
di Giulio Ragni.  29 settembre 2007.

LA MALA ORDINA (di Fernando Di Leo, 1972)

Ispirato ancora una volta da un racconto di Scerbanenco, Fernando Di Leo firma con La mala ordina il suo capolavoro, e probabilmente il miglior esempio di cinema nero mai partorito dalla nostra produzione.
Luca Canali (Mario Adorf) viene ingiustamente accusato di aver rubato una partita di droga: sulle sue tracce vengono inviati a Milano due killer americani (Woody Strode e Henry Silva), che daranno vita ad una caccia sanguinaria che non risparmierà nessuno, nemmeno la moglie e la figlia del protagonista. Sono passati trentacinque anni, e questo gioiello di azione e atmosfere cupe alla Melville non ha perso un grammo del suo fascino, dimostrando ancora una volta come Di Leo meriti un posto tra i grandi del nostro cinema, e non essere soltanto un santino per gli amanti dei cult movies: guardare per credere l’incredibile sequenza dell’inseguimento, che non ha nulla da invidiare a quelli di William Friedkin e di altri maestri statunitensi, così anche il finale ambientato in un cimitero d’auto, metafora lugubre di un mondo destinato allo sfascio. 
Strepitoso il cast, su cui svetta l’istrionico Adorf, ma è da sottolineare l’abilità del regista nel mescolare attori provenienti da estrazioni diverse, dal teatrale Adolfo Celi agli specialisti Silva e Strode nei ruoli davillain, fino ad arrivare ai “fassbinderiani” Peter Berling e Ulrich Lommel. Grande senso dello spettacolo, unito ad un’innata maestria nel muovere la macchina da presa, fanno de La mala ordina un film assolutamente da non perdere. 
Giudizio (legenda). 
di 
Giulio Ragni. 5 aprile 2008.

ARANCIA MECCANICA (di Stanley Kubrick, 1971)

Nella Londra degli anni '60 Alex (un eccellente Malcom McDowell) è il leader di un piccolo gruppo di drughi, teppistelli che passano le giornate all'insegna della violenza ai danni di vecchi barboni o giovani donne. Oltre al sesso e alla violenza c'è però un'altra passione che caratterizza Alex:il mito di Beethoven,le cui canzoni faranno da sottofondo musicale agli eventi principali del film.
Ma un giorno la vita del protagonista subisce una svolta perché viene arrestato per omicidio. Il carcere però non rappresenta affatto un'occasione per pentirsi dei reati commessi perché Alex non è cambiato:legge la Bibbia con grande dedizione (ma solamente perché ama identificarsi con i cattivi)e così riesce a convincere il parroco a “raccomandarlo”per una nuova tecnica che gli permetterebbe di abbreviare gli anni della pena. Ed è così che diventa la prima cavia per il “trattamento Ludovico”(probabilmente dal nome del famoso musicista),un lavaggio del cervello costituito dall'iniezione di droghe e la visione di film ultraviolenti.
Al termine della cura sembra che Alex sia guarito ma, in realtà, i suoi istinti e l'attrattiva che esercitano su di lui sesso e violenza sono ancora ben radicati,solamente non è in grado di metterli in pratica perché sopraffatto ogni volta da un senso di nausea. Finalmente libero però Alex scopre che la famiglia lo ha ormai praticamente dimenticato e le sue vittime,incontrate per caso,non perdono l'occasione per vendicarsi dei torti subiti,tra loro anche gli “amici”che una volta si divertiva a comandare a bacchetta,ora diventati paradossalmente poliziotti. Torturato ormai anche dall'ascolto dell'adorato Ludwing Van,tenta il suicidio gettandosi dalla finestra. Ma Alex è ancora vivo,ingessato dalla testa ai piedi ma vivo.
Mentre è in ospedale un'importante politico lo va a trovare allo scopo di utilizzarlo come strumento di propaganda. Mentre fotografi e paparazzi immortalano l'evento Alex si autoconvince, o cerca di convincere lo spettatore, di essere guarito. Stanley Kubrick è uno dei più controversi registi della storia del cinema ma i suoi film rimarranno per sempre nella memoria di chi è in grado di apprezzarli. Questo film provocò molto scalpore alla sua uscita nel '71 ,ma è importante ricordare che vinse il premio della Critica Cinematografica di New York e guadagnò 4 nomination all'Oscar.
Gli argomenti trattati sono innumerevoli,oltre ai già citati istinti violenti e sessuali(sessualità esplicita o implicita) possiamo notare l'attenzione del regista riguardo ai rapporti d'amicizia,familiari e con l'autorità (che comprende scienza,polizia e governo) e il tema della libertà individuale. Fino a che punto si possono condizionare gli impulsi di un individuo?E' giusto reprimere gli istinti e la personalità di un essere umano negandone l'essenza?Personalmente credo che il titolo stesso sottolinei l'impossibilità di trasformare un essere vivente (l'arancia,un prodotto della natura così come lo è l'uomo) in una macchina.
Non è Alex il malato da guarire ma l'intera società. Le ingiustizie che subisce il protagonista inducono lo spettatore ad identificarsi con lui,a provare pena per lui e ad odiare quelle che erano le sue vittime,ora più spietate di egli stesso. Per questo la pellicola è ancora attuale oggi,a 30 anni dall'uscita nelle sale.
Giudizio (legenda).
di Pamela Garbin.  4 Aprile 2007.