mercoledì 28 gennaio 2009

Il nemico alle porte: i mali del cinema italiano e il dibattito tra incompetenti.

L’ Italia si sa, è il paese della memoria corta e dell’opinione facile, la terra dei cachi dove tutti sono allenatori di calcio, tutti sono esperti di questioni giuridiche, tutti sono giornalisti, un paese dove il giornalismo reale, quello dei fatti, è scomparso da un pezzo (ammesso che ci sia mai stato), per lasciar spazio ad un’ipertrofia del gossip e alla vacuità dei commenti inutili, con il rischio concreto di non far capire nulla ai lettori e agli spettatori.
Ora questa moda tutta italiana da qualche mese a questa parte sembra aver contagiato anche il mondo del cinema, con gli addetti ai lavori indignati per le dichiarazioni – per molti versi sacrosante – di Quentin Tarantino, ma chissà perché non per quelle dell’eurodeputato Renato Brunetta, che dichiarava negli stessi tempi “che il cinema italiano fa schifo”, snocciolando le cifre in passivo della nostra industria, come se la cultura potesse essere paragonata alle salsicce, e il profitto fosse l’unica virtù da conseguire; e poi giù il dibattito con esimi incompetenti come Ernesto Galli Della Loggia su Corriere della Sera e altri a pontificare sulle qualità artistiche di registi e film nostrani, aiutati dalla sciagurata selezione dell’ultima Mostra di Venezia; e infine ci ha messo il carico da novanta il cosiddetto movimento dei “Centautori”, che prima lusingano il governo per un disegno di legge che sembrava soddisfarli, salvo poi ritrattare e accusare l’antica nemica di sempre, la televisione che non da abbastanza soldi.
Ora è bene fare un po’di chiarezza sullo stato di salute reale in cui versa il nostro cinema, innanzitutto da un punto di vista produttivo. I problemi sono sempre gli stessi, e nessuno sembra volerci porre rimedio: pochi produttori, che devono sistematicamente ricorrere agli aiuti dello Stato tanto esecrati da Brunetta & Co, una distribuzione ancora più affogata, che replica sostanzialmente lo stesso duopolio televisivo, senza contare tutta una serie di lobbies (politiche, ma anche artistiche) che di fatto rendono inaccessibile il mercato ai giovani. Il risultato, netto chiaro e indiscutibile, sono una media di 80-90 pellicole prodotte nel nostro paese (a fronte dei 300 degli anni Settanta), con poche pellicole di successo al box office, per lo più concentrate nel periodo che va da Natale ad Aprile, una marea di pellicole invisibili, mal distribuite o peggio mai finite e/o iniziate, pochissime coproduzioni e soprattutto esportazioni, da cui il passivo di cui sopra.
Ma anche da un punto di vista artistico non sono tutte rose e fiori: se la qualità media delle nostre pellicole si è elevato, con punte anche ottime, la scomparsa del cinema di genere ed un appiattimento di un ben poco coraggioso cinema d’autore politically correct, ha prodotto – caso più unico che raro – una “non industria” che fa solo le pellicole cosiddette impegnate, che vede coinvolti sempre gli stessi registi e attori, possibilmente usciti fuori dal Centro Sperimentale di Cinematografia o dalla Silvio D’Amico, con ognuno che si fa il suo film (alla faccia del cinema come opera d’arte collettiva) e tanti saluti alla possibilità di ricreare un rapporto con il pubblico di fidelizzazione continua, e non legata alla stagionalità dei nostri cavalli di battaglia (non sia mai stanno fermi troppo tempo i vari Ozpetek, Muccino, Salvatores, Lucchetti, Tornatore, etc…).
Basterebbe ammettere che negli ultimi venticinque anni il cinema italiano è andato in tilt perché non si è mai ripreso dal boom della televisione – e molti nostri film sono lì a testimoniarlo – che oltretutto è di qualità decisamente mediocre, anche nella tanto decantata fiction; e basterebbe redistribuire meglio le risorse dello Stato, magari destinando 1/3 alla produzione, 1/3 alla distribuzione e 1/3 al marketing (orrida parola in Italia!!!) per zittire gli stolti Brunetta e Della Loggia e soprattutto avere un vero apparato industriale. Ma forse le cose non le si vogliono cambiare perché non conviene a nessuno, non ai politici che possono continuare a rinfacciarsi gli errori e le colpe l’un l’altro, certamente non a RaiCinema e Medusa, che hanno tutto l’interesse a non far entrare altri concorrenti nel mercato, ma forse – e questa è la cosa peggiore per noi spettatori – neanche agli artisti, agli attori, ai registi, a tutti coloro che continuano a perpretare la mediocrità di vedute e ambizioni, in difesa della loro intoccabilità di maestri (venerati da chi poi?), a scapito di un’industria cinematografica che un tempo era la migliore del mondo. Ma in fondo siamo pur sempre la terra dei cachi.
di Giulio Ragni. 22 Ottobre 2007.

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