
Il “mestiere delle armi” è per Ermanno Olmi il mestiere dei mercenari, feroci e indisciplinati soldati di guerra al soldo dei signori e dei comuni dell’Italia rinascimentale per pura convenienza personale. A loro si contrappone il valore della fierezza umana dimostrata in battaglia dai grandi condottieri. Partendo da questo presupposto, Olmi ne “Il mestiere delle armi – Li ultimi fatti d‘arme dello illustrissimo Signor Joanni de le Bande Nere”, considerato il capolavoro dell’anzianità artistica del grande maestro, delinea un sommesso ma compatto ritratto di Giovanni de Medici (detto delle Bande Nere per i colori delle sue insegne), ultimo grande capitano di ventura. Giovanni delle Bande Nere, grazie alla sua rapidità e al suo coraggio, ottenne, infatti, importanti vittorie comandando piccoli contingenti di cavalleria tanto è vero che i soldati tedeschi lo avevano soprannominato “il Gran Diavolo”. Purtroppo morì nel 1526 a soli 28 anni combattendo i lanzichenecchi per conto dei francesi e del papa Clemente VII a causa di una ferita alla gamba, provocata da un colpo di artiglieria, sparata a tradimento. Per raccontare la storia di Giovanni delle Bande Nere, Olmi, però, rifiuta sia qualsiasi effetto di spettacolarizzazione, sia le regole dominanti del kolossal avventuroso. Il regista, coerentemente al suo peculiare stile spoglio ed essenziale, preferisce concentrarsi sulla solitudine e i tormenti interiori del protagonista, ricorrendo insistentemente a primi piani del condottiero e a particolari e dettagli che tentano di svelare allo spettatore l’anima dell’eroe. La prima immagine del film è, proprio, quella del volto di Giovanni, nascosto dall’elmo della sua armatura da guerra.
Dopo questo breve fotogramma introduttivo al film, Olmi dà la parola a tutti i personaggi storici, - l’Aretino, Federigo Gonzaga, duca di Mantova, Alfonso d’Este, duca di Ferrara, Il Generale della Rovere, duca di Urbino - che hanno conosciuto Giovanni, facendo esprimere il loro giudizio sull’operato umano del protagonista. Allacciandosi alla formula adottata in molti altri film (pensiamo, ad esempio, al Mediatore - Rod Steiger di “E venne un uomo” o al narratore incarnato dal vecchio capitano - Bud Spencer del più recente “Cantando dietro i paraventi”), Olmi ripercorre in un lungo flashback, conclusa la presentazione del personaggio principale, le vicende che hanno portato alla morte del protagonista, già, comunque, esplicitata nella precedente sequenza del suo funerale.
Nel compiere l’analisi della vita del valoroso condottiero Olmi va al di là della superficie delle cose per cogliere, invece, l’essenza dell’animo di Giovanni, attraverso semplici gesti o sguardi e lo spettatore è, di conseguenza, costretto a un ruolo vigile e attento, per non farsi sfuggire niente. Olmi mette in scena, dunque, emozioni profonde ma schive, che si esprimono solamente attraverso la pudica nudità dei sentimenti e dei fatti, come dimostrano il rarefatto scambio di sguardi fra Giovanni e il piccolo figlio Cosimo e la sfuggente carnalità tra il protagonista e la sua amante (Sandra Ceccarelli).
La pellicola non è, in fondo, che il racconto di una solitudine, la disperata solitudine dell’uomo impotente e innocente di fonte alle macchinazioni della politica (è tradito sia dal Gonzaga che dal Duca d’Este) e soprattutto inerme al prevalere dell’industrializzazione “dell’arte della guerra” con la diffusione delle armi da fuoco al posto dei combattimenti cavallereschi. Lo stesso Giovanni è consapevole di questi cambiamenti e nella tenda del suo accampamento cita esplicitamente le parole di Niccolò Machiavelli secondo cui “i denari sono il nervo della guerra ”. Inoltre, citando lo storico Tibullo anche la didascalia nell’incipit del film faceva, del resto, subito emergere l’ignominia degli strumenti da guerra: “Chi fu il primo che inventò le spaventose armi? Da quel giorno furono stragi, guerre…Si aprì la via più breve alla crudele morte. Tuttavia il misero non ha colpa! Siamo noi che usiamo malamente quel che egli ci diede per difenderci dalle feroci belve”. Questa presa di Olmi nei confronti della guerra finisce d’altra parte per rispecchiare e portare avanti il suo discorso, presente fin dal suo primo film “Il tempo si è fermato”, sul dinamismo aggressivo ed egoista della modernità capace di rendere disumano il rapporto fra uomo e natura, facendo perdere il profondo respiro religioso che per il credente Olmi impregna ogni cosa della Terra.
Oltre al ritratto di Giovanni dalle Bande Nere, ritroviamo, poi, come sempre nei film di Olmi (da “Il Posto” passando per “L’albero degli zoccoli” fino all’imminente“Cento Chiodi”), una partecipe esaltazione per il mondo degli umili e degli innocenti, eterni protagonisti di secondo piano della Grande Storia, confermando ancora una volta la componente morale della poetica olmiana. Emblematiche, in questo senso la sequenza in cui vediamo i soldati bestemmiatori che bruciano un crocifisso per sfuggire al freddo e quella in cui due bambini, figli di contadini, spiano da lontano la battaglia fra Giovanni delle Bande Nere e i lanzichenecchi di Carlo V. Prima di Olmi già il regista italiano Sergio Grieco ne “Giovanni delle Bande Nere”, pellicola storica del 1956 con Vittorio Gassman, aveva presentato il ritratto del capitano de Medici. Ma se paragoniamo queste due versioni della medesima storia, il torvo e tremulo melodramma di Grieco non può reggere il confronto con il forte impatto etico dell’opera di Olmi. Soltanto spiriti inaciditi e settari possono, dunque, negare a molte immagini de “Il mestiere delle armi” un’ intima carica di attonita purezza originaria, forse perduta per sempre.
Giudizio: 



(legenda).





di Maria Grazia Rossi, Aprile 2007.
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