domenica 19 aprile 2009

BABEL (di Alejandro Gonzàles Iñàrritu, 2006)

Un dramma dopo l’altro, questo è “Babel” l’ultimo lavoro del regista messicano di “Amores perros” e “21 grammi - il peso dell’anima”: Alejandro Gonzàles Iñàrritu. Il titolo riprende la leggenda della torre di Babele, la torre di cui si narra nella Bibbia. Secondo questa leggenda, gli uomini, un tempo, comunicavano per mezzo di una sola lingua, e di comune accordo cominciarono a costruire una torre per raggiungere il cielo. Dio però infuriatosi per l’oltraggio recato dagli umani, decise, per punizione, di creare confusione fra le genti facendo sì che parlassero lingue diverse. In tal modo impedì che la costruzione della torre fosse portata a termine. Il titolo è dovuto all’intenzione del regista di raccontare la difficoltà che hanno gli uomini nel comunicare fra loro. La trama è divisa in tre vicende, collocate in 3 continenti diversi ma legate fra loro. Una parte è ambientata in Marocco dove due coniugi: Richard e Susan (B. Pitt e C. Blanchett) sono andati in vacanza per fuggire dalla quotidianità. 
Ben presto la loro permanenza in Africa diventerà tragedia a causa di un’ incidente che coinvolgerà proprio Susan. Un’ altra parte è ambientata in America, dove una governante messicana si occupa di due bambini americani, ignorati dai genitori; infine la terza parte ha come set il Giappone dove protagonista è una adolescente sordo-muta e disturbata dopo la morte della madre. “Babel” è un film che non lascia speranza, è un film che racconta un mondo tragico all’inverosimile ed è un film estremamente ricattatorio nei confronti dello spettatore. Uno dei difetti più marcati della pellicola sono i personaggi (elemento fondamentale in un film corale come questo). Essi infatti risultano finti e soprattutto senza anima, così come senza anima è l’intera opera.  Troppo comodo è trattare argomenti tragici come suicidio, incidenti, morti premature, nel tentativo di regalare facili emozioni. Anzi, il film a causa della sua superficialità è arido e freddo per quasi tutti i 135’ di pellicola. 
Mal riuscito è anche il tentativo di creare una storia ad incastri, in quanto i legami fra le varie vicende sono abbastanza irrilevanti nell’analisi complessiva del film. Non eccezionali, anzi al limite della mediocrità le interpretazioni; alquanto ridondante la regia, seppur ben curata e visivamente affascinante. E’ probabilmente arrivato per Iñàrritu il momento di dare una svolta al proprio cinema, un cinema troppo gratuitamente tragico, tanto che a lungo andare è diventato fasullo e difficilmente sostenibile.

Salvatore Scarpato, 30 ottobre 2006.     

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"INCOMPIUTO" - La tragicità efficace dell'ultimo 21grammi non è ripresa in questo Babel. Riprendo un vecchio adagio calcistico per riassumere in poche parole il nuovo film di Alejandro Gonzales Iñàrritu. "Buona l'idea, non altrettanto la conclusione." Sia ben chiaro che adattando il motto sportivo al lungometraggio in questione non si tratta di conclusione ma bensì di realizzazione nel suo insieme. Tre storie a tre capi diversi del pianeta concatenate tra loro: premessa interessante ma le attese non vengono rispettate e per qualcosa come sessanta minuti (dei 135 totali) il film non si fa guardare. La violenza sembra esibita all'interno di una tragedia un po' troppo gratuita. La psicologia dei personaggi è inesorabilmente debole, soprattutto per i quattro protagonisti di spicco delle vicende (Pitt, Blanchett, Bernal e Kikuchi). Sembrano ad un primo distratto sguardo tutti caratteri forti e curati ma lasciano pian piano trasparire una, fastidiosissima, aura di superficialità. La non riuscita del film si completa con i futili e trascurabili legami che le vicende presentano tra loro. Se la paradossalità della concatenazione di tre vicende disperse nel globo si risolve con la parabola del fucile fatale alla turista americana regalato da un ricco giapponese (con qualche scheletro nell'armadio e una sessualmente squilibrata figlia sordomuta) ad un povero marocchino che poi lo rivenderà sulle sue montagne per qualche spicciolo e una capra, il film, inevitabilmente, crolla su se stesso.

Matteo Bursi, 14 dicembre 2006.     

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I film a tesi hanno sempre dei grossi limiti di partenza, insiti nella loro stessa natura dimostrativa: nel caso di un regista come Alejandro Iñarritu, questi limiti possono trasformarsi in un vero e proprio handicap, che ne inficia qualsivoglia giudizio critico. Per i suoi detrattori, queste storie incrociate sul filo di tesi piuttosto ardite, che siano il peso dell’anima di 21 Grammi o l’eventualità che una tragedia che accada in una parte del mondo possa avere ripercussioni verso luoghi e persone lontanissime come in questo Babel, risultano alquanto indigeste. Ma se andiamo oltre la superficie programmatica delle sceneggiature di Arriaga – che è la vera testa pensante di queste storie – riscontriamo più di un punto a favore del regista messicano: innanzitutto la direzione degli attori, davvero ottima, che siano non professionisti o star come Gael Garcia Bernal (scoperto proprio da Iñarritu in Amores Perros) e Brad Pitt; circa poi i temi di fondo del film, essi valgono molto di più di ciò che emerge dalla superficie. Ciò che resta di Babel, più della tesi di base, è la profonda incomunicabilità e la solitudine che ca-ratterizza i personaggi, data non tanto dal parlare lingue diverse, ma linguaggi diversi. La coppia in crisi, il rapporto padre-figlia, lo scontro con l’autorità (sia al confine messicano che nel deserto marocchino) sono tutti esempi di codici linguistici in contrasto fra loro: parlano la stessa lingua, ma non sanno comunicare. I personaggi sono mossi da motivazioni più profonde rispetto a quanto potrebbe sembrare ad un primo sguardo, e l’accusa di aridità emotiva è francamente discutibile, poiché il regista evita il patetismo, ma non l’emozione, che traspare nonostante il compiacimento stilistico, disinnescando qualsiasi forma di ricatto nei confronti dello spettatore, a costo di eccedere nella sottrazione e nella rinuncia a climax melodrammatici. 
Come padronanza di racconto Iñarritu migliora ad ogni film, il suo stile fatto di salti temporali in Babel è molto più controllato e al servizio della storia rispetto alle pellicole precedenti, e certi pezzi di bravura sono da antologia (il lavoro sul sonoro nell’episodio giapponese –il migliore – per rac-contare il disagio della protagonista, il vagheggiare nel deserto della tata messicana, la telefonata tra Brad Pitt e i figli). E i più scettici si riguardino la scena della ritrovata intimità della coppia Pitt/Blanchett, con lui che aiuta la moglie ferita a fare pipì: in mano ad un altro la sequenza sarebbe potuta entrare negli annali del trash e del ridicolo involontario.
Anche se le tesi di partenza sono irritanti, pretestuose e a volte insostenibili, teniamocelo stretto Iñarritu, perché i talenti vanno sempre incoraggiati, e chissà che al prossimo film (magari senza Arriaga) questo regista non metta tutti d’accordo.

Giulio Ragni, 15 dicembre 2006. 

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