domenica 19 aprile 2009

NIENTE DA NASCONDERE (di Michael Haneke, 2005)

"SPIAZZANTE" - All’ultimo festival di Cannes ha vinto il premio per la miglior regia, anche se molti fra gli addetti ai lavori avrebbero preferito che ottenesse il massimo riconoscimento: eppure Niente da nascondere (Caché) di Michael Haneke – che peraltro si pone ai vertici della filmografia del regista austriaco – ci sembra appartenere ancora una volta a quel filone di opere dove a dominare è la provocazione fine a sé stessa.
La storia è presto nota: un critico letterario riceve alcune inquietanti videocassette, accompagnate da strani disegni, che incrinano a poco a poco la tranquillità della sua famiglia. L’abilità di Haneke è quella di disintegrare le certezze dello spettatore sin dall’inizio, confondendo l’immagine cinematografica con quella televisiva registrata, e costruendo attorno a questa trovata stilistica un tipico meccanismo da film giallo; tuttavia il cortocircuito emotivo tra il passato individuale del protagonista e quello collettivo di un’intera nazione che si macchiò di gravi colpe nei confronti della popolazione algerina, appare alquanto sterile e inerte, mentre il film è assai più efficace quando descrive la dissoluzione della famiglia alto-borghese, grazie soprattutto alla superba prova degli attori, Daniel Auteil e Juliette Binoche. Una menzione particolare va fatta anche alla scenografia e alla fotografia, che comunicano esattamente quel sentimento di estraneità che progressivamente si instaura tra i personaggi: sia la casa che lo studio televisivo sono arredate con scaffali di libri dappertutto, e immerse in una luce bianchissima, raggelante, per sottolineare la vacuità e la superficialità dei rituali borghesi, come le cene fra amici o le discussioni intellettualistiche; una puntuale messa in scena di quella patina di conformismo che nasconde (da cui il titolo originale) i segreti di un passato rimosso e taciuto, e che non va rivelato nemmeno alle persone più vicine. A spezzare lo stile algido e limpido del film intervengono un paio di sequenze cruente, che come spesso accade nelle opere di Haneke, sono di una gratuità così evidente che si ha il sospetto che il regista le abbia messe appositamente per scioccare e basta, così come l’enigmatico finale, in cui molti critici vi hanno letto ambizioni metafisiche, sembra più voler spiazzare ancora una volta lo spettatore, che una reale esigenza espressiva e narrativa.  
½
di Giulio Ragni, 3 novembre 2005.

Nessun commento:

Posta un commento