sabato 28 febbraio 2009

IL LADRO (di Alfred Hitchcock, 1956)

Il ladro è un film giallo ricco di pagine drammatiche con aspetti narrativi a volte un po’ sperimentali ma ben riusciti. Si svolge su uno sfondo a forti tinte moralistiche di chiara matrice cristiana: un’atmosfera che irrigidisce un po’ i profili dei personaggi nel mentre esalta la loro moralità. 
La pellicola è uscita nelle sale nel 1956 e nel complesso è una degna prosecuzione delle precedenti opere di Hitchcock, in particolare di quelle che erano già oggetto di buone considerazioni critiche tra le quali: Io confesso (1953), Il delitto perfetto (1954), La finestra sul cortile (1954), Caccia al ladro (1955), La congiura degli innocenti (1956), L’uomo che sapeva troppo (1956). La sceneggiatura de Il ladro prende forma e corpo dalla riscrittura figurativa di un famoso errore giudiziario realmente accaduto a New York ai danni di un musicista di nome Balestrero: sposato e con due figli. L’eco mediatico dell’episodio ha favorito questa scelta di investimento cinematografico.
Per una denuncia alla polizia da parte di tre testimone oculari, impiegate in una succursale di assicurazioni vita, che scambiano il musicista per un rapinatore, una semplice e serena famiglia cattolica è improvvisamente trascinata nella disperazione. Le tre donne responsabili della falsa identificazione risulteranno in seguito affette da lievi disturbi isterici e da alcuni problemi alla vista.
Hitchcock all’inizio del film dichiara di aver voluto con Il ladro fare qualcosa di diverso rispetto ai suoi precedenti gialli. Il regista considera le sue ultime opere misteriosamente carenti, in un certo senso “sbagliate”. Con questo film, basato su una storia vera, Hitchcock vuol provare a colmare ciò che manca ai suoi film. Proseguendo nella presentazione del film egli aggiunge compiaciuto come Il ladro, a differenza dei film precedenti, sia ben fornito di situazioni “strane”: assolutamente non costruite. Esse, sottolinea il regista, sono frutto di una precisa trasposizione sullo schermo degli avvenimenti così come sono avvenuti. Tutto è vero nel film: “parola per parola”. 
Si è discusso molto sul termine “strano” che il regista inglese introduce nel suo monologo al film. Probabilmente in questo caso la parola è da intendere in una accezione positiva, nel senso che designa un ingrediente filmico appetitoso, ricavato dalla cronaca, indispensabile alla riuscita dello spettacolo cinematografico nel genere: giallo vero.
Questo film infatti con lo “strano” evento nato da una procedura giudiziaria riesce a tenere ben desta l’attenzione dello spettatore. Hitchcock scriveva i suoi film per tutti, il suo linguaggio perciò era semplice, a volte però poco ricercato, come in questo caso. Questo aspetto metteva un po’ tutti in difficoltà sul vero significato delle parole. La ricerca del giusto senso da dare a certe sue frasi era impegnativa. Occorreva tentare, con le sue parole, una sorta di traduzione del lessico legato al lavoro per lo spettacolo. Qualcosa che cogliesse, rispetto al contesto filmico di riferimento, la giusta equivalenza con il vocabolario più legato alla critica del film. In questo caso “strano” per Hitchcock è equiparabile a “fuori del comune, curioso”, nel senso di scoperta di una idea-situazione idonea per un film: quella indispensabile per la formazione di un buon spettacolo.
In effetti la “stranezza” che il film riporta è ghiotta e ha suscitato un buon coinvolgimento emotivo. Si riferisce come già sopracitato a un gravissimo errore giudiziario, nato all’interno di una procedura investigativa corretta ma caratterizzata da incredibili coincidenze negative che hanno ritardato e minacciato seriamente la scoperta della verità. Un fatto che ha coinvolto proprio l’immagine simbolo più importante dell’America anni ’50: quella della famiglia perbenista, onesta e piccolo borghese. 
Veniamo alla trama. Balestrero è ingiustamente accusato di diverse rapine a mano armata. Aggressioni effettuate ai danni di alcuni negozi della zona in cui risiede e presso la succursale della sua assicurazione vita. In realtà il musicista diventa imputato a causa di una serie sconcertante di eventi sfavorevoli che lo perseguitano come se scaturissero da un misterioso complotto.
Balestrero finisce in galera perché sommerso da numerosi indizi. Questi ultimi, forti della loro coerenza interna, diventano per la giustizia una prova. Da sottolineare che tutto ciò avviene con delle procedure giudiziarie rigorose e rispettose dei diritti dell’indiziato. 
Nel costruire la linea narrativa Hitchcock si avvale prevalentemente della biografia scritta dallo stesso Balestrero, il cui personaggio è interpretato magistralmente sia per verosimiglianza che per empatia filmica da Henry Fonda. Questa pellicola girata in bianco e nero e per due terzi in scenari serali e notturni di grande suggestione neorealista ha avuto un successo di pubblico non proprio di massa, è stato visto per lo più da amanti del genere e da persone legate al mondo della cultura. Per diversi studiosi di cinema Il ladro è un film controverso, insolito in Hitchcock, di difficile scorrimento emotivo. La critica si è subito divisa sul suo reale valore formulando giudizi da ottiche molto distanti tra loro: tutte però in un certo senso comprensibili perché gli approcci venivano da logiche analitiche e metodologiche diverse accomunate da un certo senso della profondità interpretativa. 
Il ladro sembrerebbe, a una prima considerazione, un’opera di difficile valutazione, un film che dal punto di vista critico lascia spazio ad eccessive ed ampie interpretazioni soggettive, se non fosse che, nonostante la prigionia espressiva che un fatto vero impone nella sceneggiatura, Hitchcock sia riuscito lo stesso a destare un forte interesse, ricco di emozioni sapientemente caricate che si dispongono psichicamente in una forma di “attesa”, pronte a scaricarsi al momento favorevole quando lo “straordinario” e lo “strano” scompaiono lasciando il posto ad una sospirata normalità. E questo è indubbiamente un punto di merito chiaro e indiscutibile per il film di Hitchcock. Il regista inoltre vince tutte quelle difficoltà che la sperimentazione insita da sempre nel giallo vero comporta. Questa vittoria è un aspetto chiaro del film che mette a tacere quei commenti rivolti alla pellicola, soprattutto italiani, in verità un po’ superficiali: tutti tesi a dimostrare, prendendo a modello questa opera, l’appiattimento espressivo che un fatto vero comporta nella realizzazione di un film giallo. Il giudizio è errato perché quei commenti hanno trascurato l’immane lavoro compensativo di Hitchcock svolto in questa pellicola per creare la giusta e funzionale delineazione psicologica dei personaggi, qualcosa che equilibrasse la caduta emotiva dovuta a una storia risaputa.
La pellicola è arricchita anche da numerose inquadrature fortemente simboliche che ricorrono nei punti più tesi del film contribuendo a dare spessore allo scenario significante avvalendosi di sintesi figurative straordinarie; queste ultime sono realizzate con molta cura e tocchi inventivi ben congegnati. Per esempio notevole è l’inquadratura con in primo piano il volto di Balestrino seminascosto da un grosso microfono sistemato davanti alla fronte durante la fase della procedura interrogativa conclusiva, avvenuta sopra il palcoscenico fortemente illuminato in una delle sedi della polizia. Lo sguardo di Balestrino con il microfono in primo piano non appare più umano, assume valenze stranianti tipiche di alcuni aspetti dell’Horror.
Inoltre il regista inglese, per destare un maggiore interesse sul film, essendo il finale noto alla maggior parte delle persone, ha dovuto giocare molto sull’emozione-commozione. Ad esempio facendo crescere via via, nello spettatore, l’indignazione per la devastazione psicologica di una famiglia cattolica ritenuta un modello di virtù sociale. Una cosa che il regista fa notoriamente quasi cinicamente soffermandosi molto in questo caso sulle sottili sofferenze della bellissima moglie e le umiliazioni patite da un marito molto orgoglioso. 
Hitchcock ha superato brillantemente lo scoglio del film a contenuti già noti. Anche se in alcune interviste ha dichiarato che nel film qualcosa non andava, proprio per l’aver voluto rimanere fedele ai fatti veri. Nonostante il finale già risaputo il film tiene sulla corda in una modalità di alto crescendo drammatico, avvincendo bene con trovate di notevole portata: sia linguistiche che di effetto transfert. Quest’ultimo è frutto inequivocabile di un grande studio. Hitchcock prepara, magistralmente, allo spettatore la insidiosa trappola del transfert. Dapprima gli fa conoscere bene, attraverso i dialoghi e gli sguardi che parlano da soli in lunghi primi piani, la situazione affettiva della famiglia Balestrero, e a proposito svela sia le difficoltà principali di cui è afflitta che l’atmosfera sentimentale: che è complessa ma prevalentemente gioiosa e fortemente unitaria. E con ciò favorisce un’importante gioco di identificazione e proiezione dello spettatore con i personaggi. Una volta certo, con le sue riprese sceniche a trabocchetto (lo spettatore è in suo potere), di aver suscitato e ben incorporato il transfert dello spettatore verso gli interpreti, il regista inglese fa precipitare gradualmente i protagonisti del racconto nella disperazione più nera curando, sempre con grande attenzione, gli aspetti di sostegno collaterale alle scene, quali: sguardi in primo piano prolungati, gesti familiari, trasposizione nel film di realtà quotidiane legate alle situazioni più comuni (metrò, stazioni, diminuitivi di nomi, traffico stradale, etc.). Ne scaturisce un’atmosfera di significati ad alto contenuto emozionale che trascinano lo spettatore in una sorta di giostra nera.
Hitchcock dà al film l’andamento neorealista che un fatto vero richiede sacrificando però il gioco dell’avvertimento5 perché impossibile da attuare nel genere vero. Quel gioco di grande tensione che scaturisce da una tecnica narrativa denominata suspense, un’alta tensione emotiva che lo ha reso molto famoso. Scene che hanno sempre caratterizzato Hitchcock per la loro costante perfezione stilistica: unica. Sequenze costruite e ideate completamente a tavolino. La carenza di suspense nel film, dovuta principalmente alla fedeltà di Hitchcock a qualcosa che già si conosceva attraverso i giornali dell’epoca, è compensata da una sceneggiatura tutta tesa alla cura maniacale del coinvolgimento dello spettatore sui personaggi; questi ultimi pertanto acquistano via via, e in modo straordinario, profondità e spessore psicologico trascinando lo spettatore nel vortice delle loro inquietudini.
Da sottolineare nel film anche l’apparire marginale della funzione immagine-tempo6, formulata concettualmente ma inconsapevolmente da Balestrino al rientro a casa il giorno dopo il fermo di polizia. Sulla soglia di casa lo sfortunato capofamiglia dice che gli sembrava di aver trascorso nella sede della polizia un tempo lunghissimo, molto più di un giorno come era in realtà avvenuto. Una lunghezza che è vissuta e testimoniata anche dallo spettatore. Questo sta a significare, dal punto di vista del linguaggio cinematografico, come l’immagine non sia solo legata al movimento ma entra anche in un rapporto gerarchico con il tempo a seconda delle situazioni emozionali in gioco, compiendo una vera e propria rivoluzione copernicana, passando cioè da immagine- movimento a immagine -tempo7. Dice Deleuze nella sua rifondazione del cinema a proposito del tempo che si piega nell’immagine: “ vediamo anzitutto il tempo, delle falde di tempo, un’immagine-tempo diretta. Il che non vuol dire che il movimento sia cessato, ma il rapporto tra il movimento e il tempo si è rovesciato. Il tempo non è più il risultato della composizione delle immagini-movimento (montaggio), è viceversa il movimento che consegue al tempo”8.
La moglie di Balestrero finirà, per i dispiaceri vissuti, in un ospedale psichiatrico, afflitta da un senso di colpa delirante; quest’ultimo certamente non è giustificato solo dalla realtà dei fatti accaduti ma si rivelerà di origine storico-inconscia e legato anche a una forma di religiosità di matrice cattolica che ne accentua l’ossessività.
Hitchcock si fa coinvolgere dal cattolicesimo della famiglia Balestrino, forse perché anche per lui la partita sulle verità fondamentali propugnate dalle religioni rimane aperta. Il regista dà senso alle numerose preghiere compiute con il rosario dal capo famiglia. Fa coincidere (notevoli le sovraimpressioni dei due volti affini, da una parte quello dell’innocente e dall’altra quello del vero colpevole) un atto di preghiera di Balestrino con l’andatura nel marciapiede del vero rapinatore prossimo a una nuova rapina. Il malvivente entrerà in un negozio e chiederà armato alla cassiera i soldi della cassa ma commetterà un fatale errore che lo porterà all’arresto. E’ la fine di un incubo, l’arresto del delinquente scagionerà Balestrino.
Il dramma giudiziario si scioglie. Successo della preghiera o casualità? Hitchcock lascia senza risposta questo interrogativo, ma coglie con quella scena di preghiera, che coinciderà con l’arresto del vero colpevole, aspetti inconsci di ciascun spettatore. Forme psichiche legate ad antiche manifestazioni di animismo degli uomini primitivi, brevi abbagli che per un attimo divengono, attivate dal film, suggestioni piacevoli.
Notevoli, per le emozioni espresse, gli incroci di sguardi nel finale, tra il riconosciuto innocente Balestrino e il vero colpevole, nonché con le tre testimone oculari. Fortissimo l’imbarazzo generale nel corridoio della sede di polizia quando tutti i volti, dei responsabili di quanto accaduto, si incrociano con il capo famiglia appena scagionato.
Balestrino sempre neutrale negli sguardi e molto contenuto nelle parole si lascerà in quel momento scappare una battuta severa verso il vero colpevole. Una cosa che farà discutere: “Per colpa tua mia moglie è impazzita”. Il capofamiglia cattolico dà tutta la colpa di quanto accaduto al rapinatore, senza cenni di perdono o analisi di astrazione sociale che giustifichino almeno in parte il colpevole. Sembra quasi che l’ordine morale della cultura cattolica abbia trionfato, il libero arbitrio agito. Il male appare allora come una scelta del delinquente vero e come tale risulta sconfitto…Ma il vero colpevole, poteva essere diverso da quello che i suoi atti criminosi lasciano intendere? Sarebbe riuscito ad entrare in un’orbita di onestà sociale e di sicura sopravvivenza con una semplice scelta del bene? Il film sembra aver fotografato uno spicchio di realtà sociale senza essere del tutto riuscito a staccarlo dalle profonde radici storiche che lo costituiscono.
Giudizio (legenda).
di Biagio Giordano. 7 aprile 2008.

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