mercoledì 25 febbraio 2009

ROMA CITTA' APERTA (di Roberto Rossellini, 1945)

Nel 1945 l’Italia usciva vinta e stremata dalla Seconda guerra mondiale, una guerra che aveva visto il nostro paese schierarsi dalla parte sbagliata, complice degli orrori e dei misfatti della dittatura nazista. Nel 1945 Roberto Rossellini girò, con pellicola di seconda mano e in condizioni di semi-clandestinità, Roma città aperta, film simbolo di quel movimento artistico e culturale che sarebbe stato poi conosciuto con il nome di Neorealismo.Oggi che sono passati giusto sessant’anni dalla sua prima proiezione, il valore e le qualità del film sono rimaste intatte, e purtroppo ancora tragicamente attuali. Rossellini ci racconta la resistenza della capitale dal basso, dalla parte degli umili, del popolo, attraverso la condizione di chi ha perso tutto, ma non la propria dignità; e sequenze come l’assalto dei forni, o gli attacchi ai camion nazisti colpiscono ancora adesso per l’impressionante veridicità che nessun film hollywoodiano, per quanto grande, riuscì mai a replicare.
Molti critici all’epoca stroncarono il film per le componenti più propriamente melodrammatiche o da commedia poiché “ne inquinavano la purezza”: ma al contrario l’unione delle riprese “realistiche” con le sublimi interpretazioni di Fabrizi e della Magnani sono la forza in più della pellicola. I due attori dimostrarono insospettabili (fino ad allora) doti drammatiche contribuendo non poco all’immortalità del film, che è da considerarsi simbolo del Neorealismo proprio perché da un lato ne testimonia la grandezza artistica, dall’altro rivela il fallimento del suo assunto teorico.
 Di fatto il cinema non replica la realtà (il “pedinamento” di zavattiana memoria), ma, per quanto ne si avvicini, è sempre e soltanto una rappresentazione di essa: c’è una costruzione narrativa, la sceneggiatura, e c’è l’occhio della cinepresa, il regista, che sono il frutto di una scelta parziale, l’adozione di un punto di vista particolare, anche se superficialmente può sembrare neutro. Ma ciò non inficia affatto la sua vis drammatica, come dimostrano la fucilazione del prete Fabrizi, o l’immortale sequenza in cui la Magnani cade sotto i colpi dei nazisti mentre rincorre il camioncino che porta via il suo amante. A tal proposito scrisse il poeta Ungaretti: “T’ho sentita gridare Francesco e non t’ho più dimenticata”. Ogni altro commento sarebbe decisamente superfluo.
di Giulio Ragni, 7 dicembre 2005.


Il film è ambientato nell'inverno del '44 a Roma, dove avvengono scontri tra i soldati tedeschi e i partigiani. Racconta le vicende di un gruppo di persone che abitano un grande palazzo popolare alla periferia della città: un tipografo simpatizzante dei partigiani e la sua compagna; una vivace donna del popolo che finirà fucilata dai soldati tedeschi; un comunista ricercato dai nazisti che qui cerca rifugio ma viene arrestato in seguito alla spiata della sua ex-amante e morirà dopo essere stato torturato; un sacerdote, don Pietro, parroco del quartiere, che aiuta e protegge i partigiani e per questo finirà fucilato davanti ai ragazzi della parrocchia che sono venuti a portagli l'ultimo saluto. Girato con mezzi di fortuna nel 1945, in una città ancora martoriata dalla guerra, è considerato il primo grande capolavoro del neorealismo, di cui diventerà il simbolo all'estero. C’è una grande attenzione nel far rispecchiare sullo schermo la realtà quotidiana, ritratta senza idealizzazioni o abbellimenti estetici. Questo grazie allo stile semplice e diretto con cui il regista, il grande Roberto Rossellini, racconta le vicende dei suoi personaggi e alle magistrali interpretazioni di Aldo Fabrizi e Anna Magnani (la sequenza in cui Pina muore falciata da una raffica di mitra diventerà una delle più famose di tutta la storia del cinema). Il film ha un ritmo un po’ duro e a volte brusco, con forti contrasti tra bianco e nero, un linguaggio di grande immediatezza e gli attori sono letteralmente presi dalla strada (alcuni erano veri e propri disoccupati) così da portare sullo schermo l’immediatezza dei volti di tutti i giorni dando spazio alla lingua popolare e ai dialetti per rivolgere il suo obiettivo all’uomo nella sua avventura di ogni giorno con i suoi aspetti amari e quotidiani immerso in una società di cui il film denuncia i lati più difficoltosi e negativi.
Giudizio: 
di Boris Fietta, 20 dicembre 2005.

Nessun commento:

Posta un commento