giovedì 5 febbraio 2009

Scrivere d'autore: Steven Spielberg

E’ considerato uno dei più grandi narratori di tutti i tempi. Il suo cinema è sinonimo di sentimentali avventure mozzafiato che sconfinano nell’immaginario onirico. Non per nulla ha chiamato la sua casa di produzione cinematografica da lui fondata DreamWorks, letteralmente “fabbrica dei sogni”. Il suo nome è Steven Spielberg. L’uscita nelle sale cinematografiche prevista in Italia per il 23 maggio del quarto episodio della saga di Indiana Jones (Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo), personaggio ormai entrato a far parte nell’ immaginario del cinema, è l’occasione propizia per tracciare un profilo di uno dei registi hollywoodiani più importanti sul panorama mondiale.Nato a Cincinnati – Ohio il 18 dicembre 1946, Spielberg, figlio di un tecnico di computer e di una pianista di origine ebree, trascorre la sua infanzia in un ambiente suburbano nel New Jersey, manifestando fin da piccolo un bruciante amore per il cinema. In particolare, i film preferiti di Spielberg sono quelli di John Ford, Frank Capra e Walt Disney, tre registi che sapranno ispirare la sua futura mitologia cinematografica. Dopo la separazione dei genitori che lo segna profondamente e il trasferimento a Los Angeles, Spielberg s’iscrive alla California State University, mentre inizia a frequentare la retrospettiva di cinema organizzata dalla University of Souther California, dove conosce George Lucas, il futuro regista della saga de Guerre Stellari, con il quale inizierà fruttuose collaborazioni e con cui rimarrà sempre saldamente legato da una bella amicizia. Per Spielberg il colpo di fortuna arriva nel 1965 quando il successo del suo cortometraggio di 35 mm Amblin’ gli procura un contratto di sette anni con la Universal Television per dirigere una serie di telefilm, tra cui l’episodio pilota della famosa serie de Il tenente Colombo. Il culmine di queste prime esperienze televisive viene raggiunto nel 1971 con il film - tv Duel, storia di un interminabile ed inspiegabile inseguimento fra un’auto e un’autocisterna, che viene distribuito a livello internazionale nelle sale cinematografiche, riscuotendo apprezzamenti positivi soprattutto in Europa. Duel è una sorta di road – movie dove sono presenti in embrione i motivi ricorrenti, della filmografia spielberghiana: personaggi assolutamente ordinari che si trovano improvvisamente coinvolti in situazioni avventurose; la famiglia come luogo d’intimità in frantumi a cui, comunque, tendere; l’incontro e il confronto con il “diverso”; il rincorrersi attraverso lo spazio di inseguitori e inseguiti; la simbologia di una presenza divina che trascende la vita terrena; l’oscura minaccia di un mondo tecnologico. Si tratta di elementi che verranno sempre trattati da Spielbeg con un’intelligente unione di tensione emotiva, pimpante senso dello spettacolo, sapiente equilibrio fra commozione e autoironia, perfetta conoscenza dei tempi del racconto e grande forza della messinscena.Dopo Duel la carriera del nostro giovane regista prosegue nel 1974 con un altro concitato road movie Sugarland Express che vede protagonista una coppia di fuggitivi (Goldie Hawn e William Artherton) alla ricerca del piccolo figlio, affidato ad un’altra famiglia. La pellicola non ottiene il successo sperato che sarà invece raggiunto dal successivo Lo squalo (1975, uno dei migliori incassi al box- office di tutti i tempi), tratto dall’omonimo romanzo di Peter Benchley. Il film, che si presta bene a una rilettura del mito i Moby Dick, impone Spielberg all’attenzione del pubblico di tutto il mondo, facendolo diventare a soli ventinove anni l’ enfant prodige dell’entertainment di pura evasione. Con Lo squalo Spielberg affina la sua arte di creare suspence, giocando sul fuoricampo cinematografico, uno stilema che sarà usuale in tutta la sua filmografia. Per aumentare l’attesa nello spettatore, il regista decide di non mostrare il gigantesco “mostro marino” per grande parte del film, limitandosi a realizzare delle soggettive dello squalo stesso che si aggira sul fondo dell’oceano accompagnato dalla famosa e adrenalina musica del grande John Williams (che diventerà il compositore ufficiale dei film di Spielberg). Quest’ansia sotterranea crea momenti di autentica paura e pervade la prima parte della pellicola in previsione dell’indimenticabile inquadratura shock: l’irruzione del primo piano dello squalo con i suoi denti bianchi in perfetto accostamento con il primo piano di Brody (Roy Scheider), il protagonista poliziotto, con sigaretta bianca in bocca.Lo spettatore avverte la stessa tensione di attesa dell’evento nel primo film di fantascienza di Spielberg Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), dedicato agli Ufo, un argomento che appassiona il regista da sempre. Fino all’atterraggio finale dell’astronave – madre sulla montagna Devils’s Tower in Wyoming, gli Ufo si presentano semplicemente come abbaglianti, enormi e inquietanti fasci di luce che fendono per un attimo il buio della notte, e svaniscono subito oltre il campo dello schermo, facendoci percepire uno straniante effetto di mancanza. Allo stesso tempo con Incontri ravvicinati del terzo tipo Spielberg rivoluziona le regole del genere fantascientifico, mostrando una visione "umanizzata" e positiva degli alieni. Come aveva fatto il maestro Stanley Kubrick ne 2001: Odissea nello spazio anche Spielberg in un ottica spettacolare dilata la dimensione cinematografica della science – fiction e allarga il significato del film che tocca valori assoluti e profondità archetipe dello spirito, inclinandosi al misticismo nel suggerire gli alieni come “epifania” del divino.La figura del marziano buono trova la sua massima espressione in E. T. – L’Extra - Terrestre (1982), favola, con valenze messianiche (E.T. come Gesù Cristo) di un gentile cucciolo alieno abbandonato sulla Terra, che incanta e commuove le platee di tutto il mondo. Costato un milione e mezzo di dollari e frutto dell'ingegno di Carlo Rambaldi, il piccolo pupazzo elettronico è la carta vincente di questo racconto per spettatori di tutte le età, che sublima il messaggio di fratellanza spielbergiana: bisogna avere gli occhi, il cuore e la fantasia di un bambino per capire e accettare i “diversi”. Gli alieni buoni ritorneranno nella filmografia del regista alla fine de A. I. – Intelligenza Artificiale (2001), progetto incompiuto di Stanley Kubrick, per riportare in vita dagli abissi di una New York sommersa dalle acque il piccolo David (Haley Joel Osment), androide bambino capace di provare sentimenti reali. Questa storia piena di dolcezza, commovente versione in chiave fantascientifica del mito di Pinocchio, trova, però, un epilogo con retrogusto al fiele, risolvendosi in un’opera cupa e pessimista, per nulla rassicurante. In fondo, è la stessa melanconia che si respira in conclusione del successivo film di fantascienza di Spielberg Minority Report (2002), tratto da un intrigante racconto dello scrittore Philip K. Dick. Questa fase pessimista viene acuita al suo massimo grado nel 2005 da La guerra dei mondi (2005), tratto dal romanzo di fantascienza di H. G. Wells. Qui gli alieni non portano più un utopico messaggio di pace, bensì restituiscono un senso di minaccia, di violenza incombente e di apocalittica distruzione totale dell’uomo.Effetti speciali digitali di sbalorditivo livello tecnico-spettacolare danno vita, invece, agli animali preistorici della saga de Jurassic Park (1993 e il sequel Il mondo perduto del 1997), tratta dal bestseller di Michael Crichton, che si rivela uno dei più grandi successi del cinema mondiale. Ma il Jurassic Park di Spilberg, oltre ad essere un grande divertissement popolare, vuole presentarsi come un monito a denuncia ecologica sulla fragilità delle conoscenze tecnologiche acquisite dalla nostra civiltà, sottolineando il pericolo per l’uomo della predatrice avidità della speculazione imperial-capitalistica.Tuttavia, sul versante del cinema commerciale Spielberg conquista, veramente, grandi e piccoli grazie al ciclo filmico dedicato alle avventure del simpatico professore di archeologia e cacciatore di tesori Indiana Jones, ispirato al personaggio di Charlton Heston ne Il segreto degli Incas, e fatto interpretare dal regista da Harrison Ford che, con il suo inamovibile cappello di feltro, la sua frustra da vaccaro in pugno e il suo giubbotto di cuoio da aviatore, diventa une vera e propria icona degli eroi cinematografici. In collaborazione con il geniale sceneggiatore Lawrence Kasdan e George Lucas, autore del soggetto, ne I predatori dell’arca perduta (1981), primo film con protagonista Indiana Jones, Spielberg, ispirandosi ai vecchi serial avventurosi a puntate degli anni Trenta e Quaranta, miscela con intelligenza eccezionale le rutilanti atmosfere adolescenziali di queste miniserie chiamate cliffhanger (letteralmente “chi resta appeso sul baratro”), senza scordarsi mai di unire la spettacolarità con un senso fisico dell’avventura e la partecipazione emotiva al mondo dei personaggi. L’acutezza di Spielberg ha ridefinito, così, gli hollywoodiani film d’avventura, dimostrando quanto il cinema d’evasione, per quanto improbabile e commerciale, possa anche essere intelligente e raffinato. A sua volta il fascino della serie di Indiana Jones (a I predatori dell’arca perduta seguono Indiana Jones e il tempio maledetto – 1984 e Indiana Jones e l’ultima crociata – 1989) sta proprio nell’inedita caratterizzazione del protagonista, che nonostante le incursioni delle tre pellicole nel genere fantasy rimane una persona ancorata al mondo reale. Indiana Jones è, infatti, un uomo comune senza doti fisiche particolari e, tra pericoli mortali, inseguimenti mozzafiato e colpi d scena, diventa audace solo quando gli avvenimenti lo stanno per sopraffare, dimostrando una straordinaria capacità di adattamento alle situazioni e di superamento delle proprie paure (fase questa che devono, adire il vero, affrontare tutti gli eroi spielbergiani). E’ soprattutto in Indiana Jones e l’ultima crociata che emerge l’interiorità di questo personaggio spielberghiano grazie al confronto con l’anziano padre Henry (Sean Connery), anche lui archeologo. Lo stesso interprete Harrison Ford parla così del suo personaggio: “Indy è uno che sa sempre motivare le proprie gesta e anche per questo ha conquistato tutti. Non ho mai considerato la serie di Indiana Jones come un film d’azione. E’ altro, scava nella sostanza della vita come ricerca moderna e archeologica”. A tale proposito anche le seguenti parole dello studioso di cinema nordamericano Franco La Polla, tratte dal suo saggio Steven Spielberg, edito dal Castoro, confermano le idee di Harrison Ford: “ pur nella sua eccezionalità , egli in realtà ha un’altra faccia. Osserviamolo durante la lezione universitaria, l’aria quasi dimessa, l’aspetto piacente ma del tutto anonimo. E poi, a differenza dei grandi eroi tradizionali, Indiana sa temperare l’eroismo con un umorismo che in genere i suoi predecessori del passato conoscevano poco.” Come nota biografica, curiosamente, è proprio sul set de Indiana Jones e il tempio maledetto che Spielberg conosce l'attrice Kate Capshaw, partner di Harrison Ford nel film, che diventerà sua moglie nel 1991, dopo il divorzio del regista dalla prima moglie, l’attrice Amy Irving, sposata nel 1985.Spielberg ha saputo, poi, mostrare la faccia più “seria” del suo talento con pellicole di maggiore impegno tematico, tutte appassionati lezioni di Storia, cariche d'emozioni, figurativamente sontuose e con una regia inventiva. Negli anni Ottanta Spielberg firma la regia de Il colore viola (1985), versione cinematografica del romanzo di Alice Walzer, che vede protagonista una donna di colore (Whoopi Goldberg) sullo sfondo dell’America rurale, razzista e maschilista degli anni Venti, e L’impero del sole (1987), che racconta l'occupazione giapponese di Shangai, narrandola attraverso lo sguardo di un bambino inglese (Christian Bale), costretto in campo di prigionia giapponese. Agli anni Novanta risalgono Amistad (1997), film che si basa sulla deportazione degli schiavi neri dall'Africa negli Stati Uniti durante l'Ottocento e Salvate il soldato Ryan (1998, il suo secondo premio Oscar per la regia), film di guerra sullo storico sbarco alleato a Omaha Beach in Normandia nel 1944. Il più recente Munich è datato 2006 ed è ambientato nei giorni successivi al massacro di undici atleti israeliani avvenuto durante le Olimpiadi di Monaco del 1972. Ma il film più civilmente impegnato dell’ebreo Spielberg rimane senza dubbio Schindler’s List (1993), una grande opera in un plumbeo bianco e nero per non dimenticare mai la tragedia dell’Olocausto, vincitore di ben sette Oscar, tra cui quello per miglior regista. Il pudore con cui Spielberg narra la vicenda del ricco industriale tedesco Oskar Schindler (Liam Neeson) che sacrificò tutti suoi averi pur di salvare più ebrei possibile rende rappresentabili per immagini di fiction l’infilmabile, ovvero il genocidio di sei milioni di ebrei. Facendola individuare all’interno di inquadrature per il resto tutte in bianco e nero, il cappottino rosso della bambina ebrea che cerca di sfuggire al rastrellamento nazista, diventa, allora, una piccola e delicata invenzione poetica, un esempio del modo con cui gli effetti speciali possono diventare creativi.Accanto ai grandi affreschi storici non mancano per Spielberg le incursioni nella commedia. In questo filone ritroviamo dapprima il demenziale 1941 – Allarme a Hollywood (1979) e il romantico Always – Per sempre (1989), due immeritati flop al botteghino. In seguito il regista passa dall’ironico Prova a prendermi (2003), storia di un ragazzino, Frank W. Abagnale Jr (Leonardo DiCaprio), che negli anni Sessanta riuscì a spacciare assegni falsi da 2, 5 milioni di dollari, al più melanconico The Terminal (2004), un film liberamente ispirato alla storia del rifugiato iraniano Mehran Nasseri, che Spielberg fa interpretare da Tom Hanks, spostando la storia a New York e trasformando il protagonista in un abitante dell'Est - Europa. Probabilmente il film più emblematico di tutta l’opera di Spielberg è forse la commedia fantastica per famiglie Hook – Capitan Uncino (1991). Nella poesia del volo e del rimpianto della figura di Peter Pan, qui un uomo adulto in carne e ossa, a cui presta le sembianze l’istrionico attore Robin Williams, si esprime il più sincero Spielberg, con la sua inconfondibile idea romantica di cinema come rappresentazione del fantastico, del sogno e della fantasia filtrate dagli occhi di un bambino che vede il grande schermo con la stessa fiducia di un sognatore. Infine, non dobbiamo dimenticare che Spielberg oltre a essere un importante autore cinematografico è uno dei magnati più potenti dell’industria hollywoodiana. In tal senso nel 1993 il regista con David Geffen (fondatore dell'omonima casa discografica) e Jeffrey Katzenberg (ex dirigente animazione Disney) fonda la DreamWorks SKG (dalle iniziali dei tre), un'impresa di produzione e distribuzione cinematografica, discografica e televisiva che si pone subito al centro della scena di Hollywood. Non è raro, quindi, leggere il nome di Steven Spielberg tra i produttori di altri grandi film di successo: i titoli sono numerosi, da I Goonies (1985) e Chi ha incastrato Roger Rabbit? a Men in black (1997 e 2002), passando dalla trilogia de Ritorno al futuro di Robert Zemeckis, ai film d'animazione (Balto, Shrek), fino alle serie tv (E.R., Band of brothers, Taken).Volendo inquadrare i film di Spielberg in una più ampia prospettiva cinematografica mondiale, il regista rientra, insieme a Francis Ford Coppola, John Milius e l’amico George Lucas, nel gruppo californiano della New Hollywood, cioè la Hollywood post moderna legati alla classicità anni Trenta – Quaranta e contemporaneamente alla moderna autorialità europea. Da questo punto di vista l’opera di Spielberg è pure un vivace esempio di metacinema, una riflessione sul cinema, una demistificazione dei generi e loro riabilitazione, un’indagine sulle possibilità audiovisive del linguaggio cinematografico e della manipolazione spazio – temporale consentita dal montaggio; il tutto messo in immagini con competenza professionale, sapienza tecnologica e allegra sfacciataggine. Ecco perché molte pellicole spielberghiane fagocitano al loro interno generi anche molto distanti tra loro, dando alla luce a grandi narrazioni spesso epiche, sempre racchiudenti il fascino intatto della fiaba e stilisticamente inconfondibili.In conclusione, la filmografia di Spielberg può apparire ad alcuni macchinosa, prolissa, zuccherosa, scontata, piena di numerosi stereotipi, interamente dentro la prassi e la retorica buonista di Hollywood. E’senza dubbio vero. Ma è quello il prezzo che deve pagare l’ingenuità dell’opera di un sognatore per sognatori che vogliono credere all'innocenza perduta dell’infanzia. “Io sogno per vivere”, dice, del resto, lo stesso Steven Spielberg.
di Maria Grazia Rossi, Maggio 2008.

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