mercoledì 25 marzo 2009

BARRY LYNDON (di Stanley Kubrick, 1975)

Lo stile di racconto che Kubrick sceglie di adottare per Barry Lyndon è freddo, nitido, distaccato, per certi versi spietato. Non c'è enfasi nella messa in scena del protagonista Barry, nessun compiacimento drammatico o patetico. La perfezione formale estrema delle inquadrature, della fotografia, della colonna sonora rende il film bello e terribile, quasi impenetrabile: un romanzo di formazione che si risolve, per il suo protagonista, in un tremendo fallimento umano e morale.
Lo sguardo di Kubrick coglie profondamente la bellezza dei luoghi naturali, degli ambienti interni, dei volti (in particolare di Lady Lyndon, personaggio costruito quasi esclusivamente in modo figurativo, e al quale Kubrick dedica splendide inquadrature contemplative), ma si tratta di una bellezza gelida, che i personaggi non sembrano percepire pienamente e con la quale non sanno stabilire un contatto umano ed emotivo positivo.
Così la cura pittorica con cui Kubrick compone le sue inquadrature fa risaltare la crudeltà nascosta dei rapporti, il vuoto morale di Barry; tanta bellezza e tanta eleganza di messa in scena circondano anime vuote, completamente sole ed infelici, incapaci di comunicare con sincerità, deluse e tristi. Nonostante la disperazione di cui è permeata, la storia di Barry è raccontata con notevole gusto narrativo di stampo letterario, segnato a tratti da una certa ironia tragica, soprattutto nel distacco con cui sono messe in scena le sequenze di guerra (la cui insensatezza crudele è resa più acuta dallo sguardo distaccato della macchina da presa) e gli intrighi di corte in cui è coinvolto Barry.
Il gelo pessimistico di Kubrick non gli impedisce comunque di sentire profondamente il dolore dei suoi personaggi; una sensibilità che si avverte soprattutto nei confronti del destino penoso di Lady Lyndon (i cui occhi persi nel vuoto valgono più di mille dialoghi) e del piccolo Bryan.
Lo sguardo di Kubrick sulla società del '700 (e ovviamente su quella di qualunque epoca) è feroce e senza speranza: l'organizzazione sociale, politica, militare è per il regista è per il regista unicamente una macchina disumana produttrice di infelicità e di distorsioni morali, emotive e affettive disastrose. Sembra non esserci per gli uomini alcuna possibilità positiva o di salvezza ma solo un affannarsi verso il raggiungimento di falsi obiettivi (spesso squallidamente materiali) prima di sprofondare, con la morte, in un nulla eterno che cancella qualsiasi azione, sentimento e pensiero. Della vita, di qualsiasi vita, non resta traccia.
Come recita la didascalia finale: "Fu durante il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e disputarono, buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri ora sono tutti uguali".
Giudizio (legenda).
di Valentina Alfonsi.  27 settembre 2007.

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