"COMMEDIA PREGIATA" - Sin dagli esordi, il cinema di Jim Jarmusch ha trovato nella forma breve, in uno stile rapsodico e frammentario, in un minimalismo di sapore quasi zen, la propria cifra espressiva. La notizia è che per questa sua ultima fatica, il regista ha messo la propria estetica di filmaker underground al servizio dell’attore Bill Murray, firmando il suo film più accessibile ed universale, tanto lineare nello svolgimento del plot, quanto denso di echi e rifrazioni, lasciando allo spettatore spunti di riflessione immersi in un’ironica, compassata leggerezza. Murray è un single cinquantenne di nome Don Johnston, ricco e annoiato dalla vita, che scopre attraverso una lettera misteriosa di avere un figlio di diciannove anni. Il ritmo sonnacchioso – specie nella prima parte – sottolinea l’inerzia del protagonista in maniera impeccabile, con inquadrature statiche tenute sempre un attimo più del necessario, che evidenziano la solitudine e il vuoto emotivo del protagonista. Lo sguardo del regista è affettuoso nei confronti del personaggio, e Murray, con i suoi silenzi e le sue espressioni attonite e imbarazzate, sono il quid aggiuntivo ad una storia di per sé non particolarmente originale, che oltretutto sembra essere la dominante di questa stagione cinematografica, ovvero la scoperta della paternità come motivo di conoscenza di sé.
Jarmusch attua uno spostamento semantico di quello che è un suo cavallo di battaglia, l’incontro tra culture diverse, che in questa commedia diventa incontro tra tempi diversi: passato e presente si confrontano nel momento in cui Don decide di partire alla ricerca della verità, sprofondando in situazioni via via sempre più imbarazzanti e assurde con le sue ex amanti. L’abilità del regista è di lasciare in sottotraccia i mutamenti del presente: lutti, sentimenti repressi, radicali cambiamenti di vita degli antichi amori (tutte bravissime le attrici) sono appena sussurrate, e questo, rispetto a un cinema odierno che sembra non riuscire a fare a meno di mettere tutto in evidenza, è senz’altro un pregio. Questi cambiamenti stridono rispetto alla vita di Don che è rimasta sempre uguale, e da qui nasce il sorriso, ma è un sorriso amaro; non si muore dal ridere, come strillano i flani pubblicitari, è un sorriso che nasconde una smorfia di dolore, un sussulto dell’anima che può pesare come un macigno: la corsa finale di Don è l’indizio del mutamento avvenuto anche in lui, che prelude ad un epilogo che è sospeso solo per lo spettatore, ma (forse) illuminante per il protagonista.
Un simbolismo ora efficace nella sua concretezza (i fiori che appassiscono a casa di Don), ora divertente anche – o proprio per – la sua facilità (il protagonista che guarda il Don Giovanni, la figlia intraprendente della sua ex che si chiama Lolita) confermano una volta in più le due facce di questa commedia, che in ogni caso non potrebbe esistere senza Murray e il suo mood recitativo, ormai musa incontrastata di tutto il cinema indipendente americano.
(

½)



di Giulio Ragni, 11 dicembre 2005.
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