Sin dal piano-sequenza iniziale, il regista canadese carica il film di un’atmosfera perturbante, che rivela tutto l’orrore che si cela dietro un’apparente, banale normalità. Al centro del film c’è l’ossessivo tema cronenberghiano dell’identità con le sue trasformazioni; ma se in passato tali meccanismi venivano esteriorizzati attraverso le mutazioni del corpo, ora tutto è introflesso nel protagonista e nei suoi comportamenti. Molte sono le sequenze da antologia: quelle di violenza, secche e brutali, che non risparmiano alcuni dettagli pulp; le due scene erotiche, dove il sesso diventa strumento privilegiato per raccontare i rapporti di coppia tra Tom e la moglie, passando da un’intima complicità a una rabbiosa, istintiva sopraffazione; e un finale ricco di tensioni, tutto giocato sugli sguardi, i gesti e la musica di Howard Shore perfettamente intonata.
Le recitazioni sono tutte azzeccate, sia Viggo Mortensen e Maria Bello per la sobria intensità, sia Ed Harris e William Hurt per le grandiose caratterizzazioni dei killer. Cronenberg da par suo orchestra il tutto sapientemente, riuscendo addirittura in un paio di sequenze a mostrare un umorismo sardonico che smorza la tensione quasi insopportabile della pellicola. Dunque un film che è insieme odissea di un cambiamento interiore e parabola sull’orrore del quotidiano, ma anche metafora di un paese la cui paura nasce da un peccato originale di violenza e dolore: un’opera complessa e stratificata che è consigliabile come antidoto alla visione degli stucchevoli pamphlet a senso unico di un Von Trier qualsiasi. E l’immagine di Mortensen, sporco del sangue dei suoi nemici, con un ghigno dalla piega crudele stampata sul volto, è una di quelle che fanno grande e necessario il cinema.
Giudizio:




di Giulio Ragni. 27 dicembre 2005.
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Un film misterioso, insondabile e inquietante. Brevissimo (un'ora e mezza), gelido, lucido.
Una storia semplice raccontata con occhio indifferente; ciò che davvero spaventa e sconvolge non è così la vicenda ma l'anima del protagonista. Tom Stall attraversa la sua storia con un'insensibilità disumanizzata, non ha reazioni emotive, né sensi di colpa; non prova apparentemente paura o rimorso. Nessuna emozione viene mostrata, né dall'interpretazione imperturbabile di Viggo Mortensen né dallo sguardo freddo, quasi assente, di Cronenberg. Tom Stall resta un mistero, tanto più inquietante perchè non sviscerato, non sviluppato, semplicemente contemplato a distanza.
Le persone che circondano Tom cercano cercano di ricondurre la sua identità all'interno di parametri comprensibili (la moglie e il figlio si arrabbiano, piangono...), lui è fuori da tutto questo.
Ha cambiato nome e vita ma ciò non ha prodotto in lui alcuna ferita. Ora si chiama Stall semplicemente perchè quel nome "era disponibile" ma il tornare alla luce della sua vecchia identità violenta non produce in lui alcuna crisi o senso di colpa.
In A History of Violence non c'è polemica sociale e non c'è il racconto del percorso di un uomo, in positivo o in negativo. C'è l'identità di un essere umano (forse non si può nemmeno parlare di "anima") che non risponde ad alcuna sollecitazione morale, emotiva, affettiva. Tra il Tom che consola la figlia dalla paura del buio e il Tom che uccide non c'è differenza. Il cuore spaventoso del film sta nel non esprimere alcun giudizio sul suo protagonista: è la psiche di un uomo malato che è stata messa in scena o semplicemente la psiche di un uomo? Quella totale indifferenza nei confronti della vita e del mondo può prodursi in chiunque? La violenza vissuta come fatto naturale, poco importante, può essere prerogativa di ogni uomo e di ogni donna?
Giudizio:

(legenda).
di Valentina Alfonsi. 26 settembre 2007.
Una storia semplice raccontata con occhio indifferente; ciò che davvero spaventa e sconvolge non è così la vicenda ma l'anima del protagonista. Tom Stall attraversa la sua storia con un'insensibilità disumanizzata, non ha reazioni emotive, né sensi di colpa; non prova apparentemente paura o rimorso. Nessuna emozione viene mostrata, né dall'interpretazione imperturbabile di Viggo Mortensen né dallo sguardo freddo, quasi assente, di Cronenberg. Tom Stall resta un mistero, tanto più inquietante perchè non sviscerato, non sviluppato, semplicemente contemplato a distanza.
Le persone che circondano Tom cercano cercano di ricondurre la sua identità all'interno di parametri comprensibili (la moglie e il figlio si arrabbiano, piangono...), lui è fuori da tutto questo.
Ha cambiato nome e vita ma ciò non ha prodotto in lui alcuna ferita. Ora si chiama Stall semplicemente perchè quel nome "era disponibile" ma il tornare alla luce della sua vecchia identità violenta non produce in lui alcuna crisi o senso di colpa.
In A History of Violence non c'è polemica sociale e non c'è il racconto del percorso di un uomo, in positivo o in negativo. C'è l'identità di un essere umano (forse non si può nemmeno parlare di "anima") che non risponde ad alcuna sollecitazione morale, emotiva, affettiva. Tra il Tom che consola la figlia dalla paura del buio e il Tom che uccide non c'è differenza. Il cuore spaventoso del film sta nel non esprimere alcun giudizio sul suo protagonista: è la psiche di un uomo malato che è stata messa in scena o semplicemente la psiche di un uomo? Quella totale indifferenza nei confronti della vita e del mondo può prodursi in chiunque? La violenza vissuta come fatto naturale, poco importante, può essere prerogativa di ogni uomo e di ogni donna?
Giudizio:



di Valentina Alfonsi. 26 settembre 2007.
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