sabato 18 aprile 2009

FAHRENHEIT 9/11 (di Michael Moore, 2004)

In Roger & me si era appassionatamente occupato della rovina del suo paese natale, Flint, ad opera, a suo dire, della General Motors. In The awful truth aveva denunciato le prevaricazioni delle grandi società di affari statunitensi e con Bowling for Columbine, che gli valse l’Oscar, mise a fuoco la situazione dell’industria delle armi.Fahrenheit 9/11, di cui è già stato annunciato il seguito per il prossimo anno, si colloca in questa trafila come il film che condensa tutti i principali obiettivi del regista: la povertà, le armi, la grande industria. E naturalmente quello che da qualche anno è il suo bersaglio numero uno, il Berlusconi oltreoceano, George W. Bush. Già con il libro Stupid white man, “dedicato” al Presidente, Moore aveva reso chiare le sue intenzioni, e oggi pare più che mai deciso a continuare a perseguire il suo obiettivo. E poco conta (per lui) che, come dice Moretti, il Berlusconi abbia vinto comunque. Il valore di Moore è quello della denuncia. 
Viene da chiedersi come mai, dopo un documentario-shock o quasi, la reazione dell’America sia stata quella di rieleggere il Presidente che, a detta di Moore, hacheated, imbrogliato. Un altro broglio, forse? Chissà. Quello che è certo è che nel 2004 Cannes è a stento riuscita a contenere la folla ammassata per assistere alla prima del film, che l’Europa ha valutato positivamente, essendo forse in posizione privilegiata per analizzare con maggior distacco le vive contraddizioni di un Paese come l’America. 
Le definizioni di “film” o “documentario”, comunque, non paiono adeguate per una pellicola come questa: un “film” è per definizione fonte di una sceneggiatura inventata, un “documentario” dovrebbe essere neutrale e non dichiaratamente di parte come è quello di Moore. In ogni caso, ha avuto in parte l’effetto sperato. Chi altro avrebbe parlato, se non all’America, che di mezzi di denuncia non manca affatto, all’Europa, dei numerosi retroscena della guerra in Iraq? Retroscena che comunque erano in parte risaputi – per cui il documentario è stato  solo un “mezzo” shock – ma che era opportuno mettere in luce, e Moore l’ha fatto con grande sapienza registica (anni e anni di esperienza) e ironia talvolta pungente. E, naturalmente, una morale pacifista di fondo: tutte le guerre sono intraprese per sostenere il potere della classe dominante, ma chi le fa è sempre la feccia della società. Dal regista del video Boom! dei System of a Dawn non potevamo aspettarci altro. 
Da un punto di vista esclusivamente cinematografico, il film si sviluppa in maniera scorrevole e coerente, benché nella prima ora inciampi un po’ sulle situazioni economiche e finanziarie dell’America, esposte in modo chiaro ma comunque poco comprensibile ai totalmente digiuni di giochi in borsa. Splendida, anche se un po’ troppo marcata, la seconda parte, non a caso dedicata quasi completamente a un minuzioso e dolente documentario sugli effetti disastrosi di una guerra condotta contro i civili. Il “film” di Moore non lascia spazio alle risposte della parte avversa, e sostiene la propria tesi e i propri valori con sicurezza quasi giornalistica. 
Come recita il titolo di uno dei libri del regista, will they ever trust us again?Purtroppo, temo proprio di sì. 

Giudizio  (legenda).
di Chiara Palladino, maggio 2007.

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