Sembra incredibile che un film come La casa dalle finestre che ridono sia stato realizzato da un regista come Pupi Avati, diventato nel tempo una specialista di commedie agrodolci e drammi sul filo di un costante autobiografismo.
Ma negli anni giovanili Avati è stato un regista molto più inquieto e decisamente lontano dall’immagine di autore rassicurante a cui ci ha abituato, mostrando un gusto per lo sperimentalismo e una vena di sana follia che rendono i suo primi film estremamente interessanti: La casa dalle finestre che ridono è forse la sua pellicola più famosa di quel periodo, un horror “padano” che mostra il lato oscuro di quella provincia che è sempre al centro delle tematiche e della poetica avatiana, sanguinario e terrorizzante come pochi altri prodotti del cinema non soltanto italiano. In questo film che inaugura il suo filone horror, Avati esorcizza i propri fantasmi personali, segnati da un’educazione di matrice cattolica che tornerà non a caso nelle sue pellicole successive (Zeder, L’arcano incantatore e l’ultimo Il nascondiglio), dove fondamentale risulta l’apporto tecnico della fotografia di Pasquale Rachini e delle musiche di Amedeo Tommasi per dare quella sottile, costante ansia patologica in tutto il film.
Suggestioni pittoriche mescolate a picchi visionari, che sfruttano al massimo il risibile budget – basti guardare la casa del titolo – consentono ad Avati di firmare una pellicola dal culto assoluto, con uno dei finali più scioccanti che si siano mai visti, un incubo ad occhi aperti che non sarebbe dispiaciuto ai surrealisti. Da vedere.
Giudizio: 

(legenda).



di Giulio Ragni. 20 maggio 2008.
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