Questo importante film sul cinema, di produzione portoghese-tedesca, si svolge in una Lisbona altra, che non si lascia ammirare solo per le sue bellezze paesaggistiche e architettoniche ma anche per ciò che racchiude nel suo spirito antico: enigmatico, profondo, affascinante e misterioso. La pellicola porta la firma di un grande autore controcorrente quale Wim Wenders ed è uscita nelle sale nel 1995.
L’autore tedesco si tiene lontano dalle consuete forme di spettacolo cinematografico che utilizzano le capitali europee di grande prestigio al solo scopo di esibirle al pubblico. Qui Lisbona viene offerta agli spettatori in una dimensione nuova: nello splendore di un significato chiaro, a lungo ricercato e che riemerge da una storia in parte ancora in vita.
E’ un passato glorioso quello di Lisbona che rilascia con orgoglio alcune propaggini nel presente, quasi a richiamare i media a una maggiore attenzione verso lo spirito antico che in qualche modo ci costituisce. Una parte inedita della città viene ripresa e rispolverata grazie a un desiderio di autenticità che è stato a lungo accarezzato dal regista. Wenders osa andare contro quell’esigenza di bello che l’industria cinematografica più retriva coniuga sovente con gli affari. In questa pellicola i caratteri più semplici e sobri dei personaggi, ammantati di un’umiltà dignitosa, ben si sposano con le poesie di Pessoa e invitano gli artisti presenti nelle vie a vedere la città in una chiave nuova. L’opera di Wenders è intessuta anche d’idee guida per un cinema diverso. Esse sono ben elaborate, spesso critiche ma mai chiuse, sempre originali e aperte a un dialogo. Wenders vuole la rinascita di un cinema interessato alle riprese delle spiritualità più abbandonate delle città, con artisti di cinema che ne studino le verità più nascoste: aspetti un po’ più culturali che sono stati per troppo tempo lontani dall’industria del cinema. Il regista tedesco si sofferma anche sul senso più profondo e generale della crisi di creatività che affligge i registi cinematografici contemporanei.
Wenders mette duramente in discussione alcuni punti psicologici e artistici del cinema d’oggi, come ad esempio quell’imperiosa necessità narcisista che porta a costruire immagini preconfezionate, un po’ stupide, plasmate da un volgare bisogno di quotidianità evasiva, familiare e sicura: radicata in luoghi sempre ben riconoscibili e confortanti. Quella di Wenders è una critica soprattutto verso il fascino bigottodell’appartenenza a schemi visivi collaudati. E’ contro quell’essere con altri quando ciò spegne ogni spirito critico.
Il regista tedesco va al di là di ogni convenzione linguistica cinematografica, preoccupandosi in primo luogo della valenza artistica che l’immagine può assumere quando svela cose mai viste. Oggi l’oggetto presente nel fotogramma del film, nasce da un’abitudine a rappresentare e riprendere le cose secondo un calcolo. Perciò i contenuti dell’immagine appaiono al regista tedesco artificiosi, innaturali, prevedibili. L’occhio che scruta è troppo interessato, ed è mosso da narcisismi rozzi che allontanano da ogni piacere per l’originalità e l’inedito, nonché dalla fondamentale emozione cinematografica legata allo stupore. Lisbon Story per il suo valore filosofico e critico viene proiettato le prime volte nel circuito delle sale d’essai. Wenders ama mettere sotto accusa anche se stesso.
Con quest’opera, indubbiamente da considerare tra le più mature, egli osa criticare il cinema passando da una propria crisi d’ispirazione: che interpreta e traspone in gran parte nel film. Parla di un malessere acuto che scaturisce da un rapporto non chiarito con l’industria cinematografica. Come accaduto a Fellini in otto e ½ Wenders pensa che il suo problema risieda soprattutto nella presunzione di saper comunicare e far vivere l’immagine. Questo lo ha portato in precedenza ad avere un’ottimistica credenza nel film intellettuale, inteso come garanzia di alta qualità espressiva. La storia del cinema dimostrerà come sia effimero e pretestuoso pensare che il cinema possa ridursi a saggi intellettuali. Il movimento della vita e del racconto che la rappresenta risulteranno le caratteristiche più importanti del cinema. Ecco allora che Wenders diventa figlio e ritorna umilmente a occuparsi dei grandi artisti.
Con questo film Wenders rende omaggio a diversi personaggi e poeti grandiosi ponendosi per un istante, denudato da ogni interesse di protagonismo, accanto a loro. Ed è perciò che il film vuole ricordare Fellini, lo fa all’inizio e alla fine del racconto, con un richiamo implicito al suo film otto e ½, un’opera che per certi aspetti affronta temi simili a quelle di Wenders. Wenders mette in scena anche il regista contemporaneo Manuel De Oliveira massimo esperto cinematografico portoghese, autore di capolavori come la “Divina commedia”, De Oliveira nel film appare in un vecchio filmato d’epoca mentre recita in alcune scene mute in chiave di mimica comica. Infine Wenders si cala nella lettura poetica di Frenando Pessoa, poeta degli anni ’30: vengono lette parti di alcune sue poesie esistenziali, pertinenti al tema della crisi trattato da Wenders.
Il regista tedesco con Lisbon story rimane fedele al suo spirito fortemente polemico, visionario, avente spesso per oggetto di studio il linguaggio del cinema d’oggi. Ma egli finisce per attaccare tutto il modo moderno di intendere il cinema. Una polemica a volte un po’ avventurosa nei contenuti ma sempre avvincente per la passione che l’anima e per le tematiche messe in campo, selezionate queste ultime con intelligenza. I temi sollevati da Wenders sono da sempre considerati importanti, sono motivo di fertili discussioni perché sempre pertinenti alla ricerca teorica e storica del linguaggio del cinema.
La sua animosità non si trasforma mai in una ripulsa totale e generale del complesso mondo cinematografico. Wender ha espresso costantemente, senza alcun riserbo, grosse perplessità nei confronti di quel cinema contemporaneo costruito a tavolino che si avvale di una garanzia di successo grazie alle efficaci indagini di mercato svolte sui gusti e i desideri un po’ inerti dei cittadini, un cinema che secondo lui non può che essere mediocre perché non sorprende gli spettatori con l’intreccio inedito e poi è un cinema che avendo la pretesa di voler fare spettacolo e arte nello stesso tempo si dissocia da sé, dimenticando come il mercato non è un punto di riferimento assoluto capace di legare qualità e divertimento. In questo film Wender, tramite lo schermo, offre al pubblico per un giudizio, la sua sofferenza di artista angosciato: un malessere oscuro, costellato di paure, avviato a subire dure forme di solitudine.
Questo film è l’angoscia di un autore cinematografico che non riesce più a trovare la lucidità creativa necessaria per inventare storie che rispecchino il valore visivo di una vita e l’etica che la sostiene.
Il regista tedesco non ha una storia vera da narrare, è costretto a descrivere il suo stato di artista depresso. Uno stato vicino alla malattia ma che però finisce per dire qualcosa di ancora più vero di una storia qualsiasi, regalando al cinema una preziosa riflessione sulla crisi delle immagini filmiche. Wenders riesce, nonostante la depressione (o forse grazie ad essa), a comunicare al mondo la sua idea su un cinema mancato, irrealizzato, che non è riuscito a entrare, nonostante tutte le sue potenzialità tecniche, nell’arte vera. Wenders è sincero, prova a interpretare i pensieri più ossessivi che si presentano alla sua coscienza, un po’ come fece Fellini con i suoi otto e ½. Il regista tedesco analizza e scompone in varie forme l’anima di Lisbona, in piena solitudine, senza trascurare l’incantevole musica del luogo ben espressa dai Madredeus. Si sofferma sui personaggi più immediatamente veri della città, lo fa a volte con una mente protesa alla conservazione cinematografica di quel mondo altre volte con una rassegnazione a perderne per sempre la vitalità e ritornare alla poesia pura legata al ricordo. Solo con questo film autobiografico Wender riesce a sentire un momentaneo sollievo dal peso della sua depressione.
Il personaggio chiave del film è Fritz, regista tormentato, che gira per le vie di Lisbona con una telecamera posta dietro la schiena, al riparo dall’occhio schiavo del mercato dell’immagine, solo così gli sembra di rimanere fedele a un’idea di fotogramma puro e nuovo, vicino a un’innocenza perduta. Fritz pensa che in quel modo si possa liberare l’immagine da un oggetto interno precostituito. La cinepresa fissando aspetti casuali della città fa entrare nelle immagini oggetti freschi, assemblabili prevalentemente lungo un gioco poetico.
A cento anni di distanza dalla proiezione della prima pellicola francese, un grande autore come Wenders ha avuto il coraggio di fermarsi a riflettere sul senso dell’immagine oggi, sulla sua deformazione affaristica, in un tempo (1995) molto vicino a un’importante vigilia, quella del terzo millennio. Una vigilia densa di paure, di ansie di ogni genere. Questo film rappresenta la crisi del cinema alla vigilia del nuovo millennio: la sua caduta inesorabile negli abissi dello spettacolo controllato e diretto sempre più dai media.
Il film invita gli artisti dediti al cinema a ricreare un tempo dell'innocenza delle immagini, sottraendole allo sguardo felino di chi le riprende, a quell’occhio che privo di sensibilità artistica, punta la cinepresa verso un oggetto contaminandolo di volgarità e sottraendolo quindi a una dignitosa vita espressiva.
Giudizio: 


(legenda).




di Biagio Giordano. 21 novembre 2007.
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