mercoledì 1 aprile 2009

PROFESSIONE REPORTER (di Michelangelo Antonioni, 1975)

David Locke giornalista televisivo anglo-americano è inviato in Africa settentrionale per trasmettere al suo paese informazioni su una delle numerose guerriglie politiche che infiammano il Sahara. Nell’Hotel dove alloggia conosce e fa amicizia con David Robertson commerciante d’armi.
Durante una notte afosa Robertson, malato di cuore, muore improvvisamente di infarto rimanendo a lungo riverso nel suo letto. Locke si accorge per primo del cadavere e approfittando di una certa somiglianza con l’amico ne assume l’identità. Falsifica quindi con efficacia tutti i documenti di riconoscimento.
Il film per i media può sembrare datato ma per la psicanalisi no. Antonioni comunica emozioni di tipo introspettivo articolando anche pulsioni di morte legate a questioni esistenziali enigmatiche. Problemi storicamente riconoscibili. Oggi questa pellicola sarebbe destinata ad un insuccesso  di pubblico e forse anche a un disinteresse del punto di vista della critica cinematografica. Non è infatti un film che nella sua sceneggiatura mostri preoccupazioni “spettacolari”. Inoltre non coltiva emozioni da suspense o da sensualità intricata. Il disagio però è ben precisato e si situa  tra le righe di una scrittura ordinaria del quotidiano. La donna nel film è ben presente ma rimane un oggetto desessualizzato probabilmente per favorire la messa a fuoco del disagio identitario. Senz’altro questa pellicola verrà riproposta nei cinema d’“essai” e nella televisione in seconda serata perché è stato riconosciuta a suo tempo come un capolavoro, un “giallo che si porta addosso un mistero” (Morandini). Buona è la sua capacità comunicativa “altra”: quella più legata ai paradossi del dominio dell’inconscio sull’“io”. Poco può dire in un film di questo genere la chiarezza  convenzionale dominata dalla coscienza critica. 
Non ci sono parole per descrivere la crisi di David Locke, non ci sono oggi come non c’erano al tempo in cui è uscito il film, c’è solo un movimento di macchina preso senza tempo nei rumori della realtà, impercettibili, esaltati dai piani sequenza, riprese drammatiche che risulteranno più forti del verbo, esse nello stesso tempo commuovono e impauriscono lo spettatore che finisce per trovarsi testimone oculare di un’esistenza altra che proprio perché lo riguarda lo risospinge con il pianto nel suo mondo più ipocrita. 
Alcuni significati più generali del film si possono reperire solo con la conoscenza del contesto storico in cui il film nasce.
L’arte cinematografica è anche un calarsi ingenuo nel linguaggio inconscio. Alcune questioni interiori, presenti nei personaggi dell’epoca in cui si svolge il film, vengono portate alla luce con un paziente lavoro di ricostruzione delle pagine storiche che  racchiudono la vicenda. Uno sfondo che rimane  fedele alle apparenze di un’epoca ma mostra i punti oscuri, invisibili del lavoro della morte. Ne scaturisce l’individuazione di una caduta del senso positivo per la vita e della professionalità del protagonista a vantaggio dell’emergere di pulsioni di morte oniriche che non rinunciano al gioco di identificazioni con figure fantasmatiche. Gioco  che crea nuovi desideri. Desideri veri ma privi di un oggetto reale, destinati quindi alla delusione e poi alla tragedia. Passando da giornalista a venditore di armi Locke sperimenta l’ebbrezza di essere un altro per l’altro. In un certo senso il suo inconscio ha già scelto il delirio e la morte come estreme risorse di piacere a dispetto di una razionalità che non riesce più a dare soddisfazioni.
Penso che abbia  senso oggi riproporre queste brevi riflessioni sul film, forse perché si può intendere meglio a distanza di tempo anche qualcosa del cambiamento culturale e sociale avvenuto dal 1975 ai giorni nostri. In particolare si precisa qualcosa che riguarda le linee di frattura generazionale sia nel costume professionale che politico del post ’68. Ciò è evidente nelle suture  avvenute lungo la lacerazione di un malessere creato dal crollo delle ideologie del ‘68. Effetti che portano al ritorno nel privato personale. Il film mette in rilievo il fallimento di una identità unidirezionale nel sociale utopico basata sulla famiglia, il progresso sociale, la soddisfazione professionale. Temi che caratterizzavano gran parte dei progetti di vita degli anni ‘70.
Con la sua nuova identità che ha il sapore della trasgressione Locke vaga senza una meta precisa, abbandonandosi sullo sfondo di in una ambigua illusione al piacere della morte della sua vecchia identità troppo razionalizzata dai compromessi. Una nuova identità che viene vissuta come gioco del mistero esistenziale inconscio, come arte della sessualità sublimata: le cose si svolgono contro il destino reificato dell’Io fino a divenire morte reale. In una rinascita altra messa in gioco solo per pochi istanti: anche l’altrove, pensato come alterità priva di ansie, risulta “invivibile”. Lascia solo il tempo di intravedere l’abisso, segnato di storia,  che  affligge il suo Io. La coscienza del proprio passato cerca la via della soddisfazione. In questo caso la esige al prezzo della morte.
Giudizio (legenda).
di Biagio Giordano.  11 gennaio 2008.

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