Partiamo da una premessa importante: Dario Argento è un regista incredibilmente sopravvalutato, soprattutto dagli amanti del cosiddetto cinema di genere (ammesso che una divisione tra questo e il cinema d’autore abbia ancora senso), e lo dimostrano ancora di più i suoi ultimi pessimi film, uno peggiore dell’altro, che rivelano l’inconsistenza e il ridicolo involontario delle sue sceneggiature, e una direzione degli attori a dir poco imbarazzante.
Difetti che invero egli già mostrava negli anni Settanta, ben camuffati da uno stile innovativo non ancora diventato mera perizia tecnica, e un decennio che amava gli eccessi e gli estremismi: Profondo Rosso resta comunque un titolo immortale del cinema non soltanto italiano, un classico del terrore che gioca con i nervi scoperti dello spettatore; visto ancora oggi al buio, magari isolati da qualunque rumore esterno, fa drizzare i capelli in più di una scena.
È il Dario Argento più terrorizzante e sanguinario, in bilico tra i suoi primi thriller e la successiva svolta horror di Suspiria, in cui il moltiplicarsi all’infinito delle vittime, uccise nei modi più barbari possibili, e la famosissima colonna sonora dei Goblin, acuiscono l’iperespressività del cinema argentiano, enfatico e ridondante nel rileggere gli stilemi hitchcockiani spingendo sul pedale del gore: non è un caso che il segno epitome del cinema di Argento sia il particolare ravvicinato dell’iride, metafora esibita di un cinema che non arretra mai lo sguardo davanti a nulla, che sente la necessità di mostrare tutto allo spettatore, non risparmiandogli niente.
Un film che è rimasto ad imperitura memoria di diverse generazioni di spettatori, e come tale non può che essere annoverato tra i classici del nostro cinema.
Giudizio: 

(legenda).



di Giulio Ragni. 5 aprile 2008.
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