Poche pellicole riescono a trasmettere un autentico disagio come il Salò firmato da Pier Paolo Pasolini, nato come abiura della precedente “Trilogia della Vita”: riprendendo l’omonimo libro scandalo del Marchese De Sade, il regista trasporta le vicende in epoca fascista, per quella che nelle intenzioni doveva essere una denuncia contro la deriva consumistica dell’uomo contemporaneo dove tutto è merce, compreso il proprio corpo.
Dominato da atmosfere funeree contrappuntate da sprazzi di acre umorismo, Salò è un film sulla Morte che stempera l’invettiva rabbiosa in un raggelante squarcio sull’orrore della civiltà, un’opera destabilizzante in cui ancora oggi nel guardarlo sopravvive un malessere insopprimibile, nelle sue inquadrature fisse, quasi ieratiche, dove avvengono torture e nefandezze di ogni tipo. E proprio per questo Salò rappresenta più di ogni altro film al mondo un limite sullo sguardo e sulla visione oltre il quale si spalanca il nulla: da una sua costola nascerà il filone nazi erotico, degenerazione scandalistica e commercialmente morbosa di quello che in Pasolini è rivolta antiborghese in forma di disturbante allegoria, un grido di dolore venato di sana follia di un artista che aveva capito tutto con largo anticipo, e che proprio per questo fu condannato ad un isolamento sempre più totale all’interno dell’elite culturale dell’epoca. Premonitore.
Giudizio: 

(legenda).



di Giulio Ragni. 1 dicembre 2008.
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